Lo conoscevo. Ero entrata più volte
nel luogo dove vivevano i suoi quadri e lui, silenzioso, vivente il
dolore visibile della sua esistenza, si ritirava come per nascondersi
a qualsiasi possibile mondanità: una bottega da autodidatta in
Piazza Peretti a Grottammare Alta, il borgo scosceso che abitava la
sua pittura, nella realtà come nel sogno. Giacomo Pomili il suo
nome. Il Tarpato, la firma della sua arte che evocava un disagio
lungo anni, la fatica di sciogliersi alla vita, di tradursi per il
mondo. Silenzioso, guardava i visitatori della sua “bottega”
dietro una specie di sorriso restìo. I quadri erano allora disposti
confusamente, ma non si faceva fatica a coglierne un’inusitata
bellezza, singolare e forestiera, per niente dilettantesca.
Domenica
ho visitato il museo che la sua città gli ha dedicato a sedici anni
dalla morte. Un luogo pieno di suggestione che era stato l’antico
forno del borgo, a un passo dal Teatro dell’Arancio, dunque nel
cuore del vecchio incasato e prospiciente la sua” storica”
bottega, ora irriconoscibile in un festoso e turistico baretto.
Nel
luogo nuovo, i quadri sono la festa del pubblico accorso
all’inaugurazione. Cosa ne avrà pensato il Tarpato che in età
avanzata non voleva neanche venderli, che non faceva mostre, che non
ritirava premi?
E da quale piega della sua fantasia sgorgano le
sue creature, che hanno in sé una festa non più segreta, i passi di
un sogno durevole, che accompagna la visione di una Grottammare
trasfigurata, percorsa da un vento di misteriosa allegria, in un
fascino che avvince ai colori, alle forme di quest’arte di passione
e magia?
E forse non solo allegria, ma stupore, per i piccoli
uccelli in volo sopra cuspidi di chiese, vestiti di piume variegate,
gli animali esotici nelle loro innocenti trafile, la prospettiva
sghemba delle vie e della città immersa nel suo cielo, percorsa da
strade che l’annodano come nastri salendo e scendendo fino al mare,
o al trenino dove s’imbarca un viaggio per un nonsodove che ci
trascina nel paese interiore di Giacomo, un uomo-fanciullo…
E
ancora barchette, piccole vele dai colori mescolati con la sincerità
e l’ingenuità della sua anima primitiva, capace di vedere insieme,
nella neve e nella notte, gl’innumerevoli tetti di Grottammare che
posa lungo la sua riviera, un mare che è anche ruscello azzurro,
mentre la luna si tinge di rosso e i dorsi delle colline si lasciano
arrampicare dalle case, crepitano nei tetti rossi o blu, fervono in
una convivenza a cui il cuore le ha unite, occhieggiano come dimore
di una comune infanzia.
Vedere i quadri insieme è come un
risveglio, un’immersione nell’arte del Novecento, perché vi
ritroviamo inconsapevoli ( o forse no) rimandi a Dufy e a Chagall,
perfino a Picasso, e il comporre del Tarpato ha un èsprit che non si
può restringere in una definizione di naif per la sua arte, ma muove
da un’intuizione che s’inoltra, una percezione onirica e insieme
sapiente, come filtrata da una segreta fiducia in chi guarda e può
ancora rallegrarsi per il colore, l’ altrove di questi
dipinti sospesi fra il cielo e la terra come aquiloni.
E adesso mi
rendo conto che il silenzio di Giacomo era il suo abitare questa
città sconosciuta, conoscere il canto di una terra di colori dove
nessuno poteva entrare, perché non avrebbe capito…
Questo mite
universo è ora un bene di tutti, una strada segreta per cui
attraversare il sogno di un uomo diverso dagli altri, un custode di
umanità, il sorriso e lo sgomento delle sue figure femminili, del
suo autoritratto, giocoso ma anche austero, il profilo bianco del suo
inseparabile Lupo, il cane che aveva trovato randagio ed è diventato
una sigla pittorica. Sorriso e sgomento di fronte a una pittura
“seria”, che auspichiamo raggiunta presto dagli addetti ai lavori
per essere inserita a buon diritto nel panorama della nostra arte del
Novecento.
Enrica Loggi
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