La
nostra campagna degli anni ’50 era quasi uguale a quella degli anni
’80 di Marco Chiarini. Le ultime “campagne campagne” da vivere
totalmente, sempre silenziose salvo quando vi passeggiavano i
temporali.
Le case distanti a due piani, colori stinti finestre piccole e coppi muschiati. Le voci lontane come canti. Lucciole a sciami nei cespugli. I rumori strani ma riconoscibili. L’immancabile fango come il Bostik, l’erba medica, l’uva e le ciliege da rubare, le lucertole da stanare, canne spine nidi… pure di vespe ahi! Anche noi stavamo alla larga dalla casa-del-cane-cattivo, masticavamo rami di liquirizia e terra, ci arrampicavamo dappertutto scorticandoci a sangue. Andare al fiume era irresistibile, quei lunghi mucchi di terra (la volpara) erano formidabili punti d’avvistamento, scorciatoie per il campo di fava, nascondigli per fionde, posti per bruciare qualcosa e far segnali, per costruire vulcani funzionanti (!)… Ognuno di noi era un bambino-fiammifero, forse per questo non arrivammo a sognare l’Uomo Fiammifero.
Le case distanti a due piani, colori stinti finestre piccole e coppi muschiati. Le voci lontane come canti. Lucciole a sciami nei cespugli. I rumori strani ma riconoscibili. L’immancabile fango come il Bostik, l’erba medica, l’uva e le ciliege da rubare, le lucertole da stanare, canne spine nidi… pure di vespe ahi! Anche noi stavamo alla larga dalla casa-del-cane-cattivo, masticavamo rami di liquirizia e terra, ci arrampicavamo dappertutto scorticandoci a sangue. Andare al fiume era irresistibile, quei lunghi mucchi di terra (la volpara) erano formidabili punti d’avvistamento, scorciatoie per il campo di fava, nascondigli per fionde, posti per bruciare qualcosa e far segnali, per costruire vulcani funzionanti (!)… Ognuno di noi era un bambino-fiammifero, forse per questo non arrivammo a sognare l’Uomo Fiammifero.
La
nostra era la “penultima campagna”, senza la Polaroid,
senza la Fiat 127
bianca (massimo
la Topolino-giardinetta di legno), senza Adidas,
il tascapane booh.
Avevamo ancora tutti i capelli corti. Niente biciclettine, di
nascosto sulla bici nera coi freni a bacchetta si pedalava furiosi
infilati sotto alla canna, fino a sbattere. Papà c’aveva un Motom
coi pedali al posto della Kawasaki verde “tre
pistoni”.
Nè d’estate né mai ci s’avvicinò una bambinetta per sfidarci o
giocare. Ne avevamo tre a scuola, sui banchi loro. Le scarpe sì,
erano a punta già allora, senza marca. Il cinema lo faceva Don
Marino. Il sapore della vita era croccante, si giocava come a
lavorare, si parlava l’indispensabile, più per difendersi e
attaccare, si “scriveva” sui tronchi e per terra, mappe da caccia
al tesoro, con segnati sempre i punti dove appicciare il fuoco… Si
rubava spago e rame, ammatassati poi in gomitoli da “vendere”,
bah… Non c’erano le girelle
Ferrero
ma pane olio e pomodoro, vino cotto due dita, di rapina. Che
paradiso.
Se
c’era, a quel tempo l’Uomo Fiammifero era certo un ragazzo, ovvio
che Simone più tardi lo
avvisterà grande più di due metri e meno di tre, che accendeva le
stelle, che mangiava pietra focaia e cortecce e beveva cherosene, che
succhiava le uova col buco, che portava il frac e il
papillon-cravattino sospettissimo. Ne parlarono anche i giornali, lo
fotografarono nei boschi vicino alla volpara…
Oggi
la campagna s’è estinta, anche nei film. Tranne in questo, per
fortuna. E’ diventata come la città: case d’architetti mal
ri-fatte con cani feroci alla catena, asfalto cemento macchine veloci
SUV cancelli con telecamere. Vigne d’allevamento, frutta da Conad,
ciclisti assatanati, B&B, pannelli solari che t’accecano.
Incendi potenti e “dolosi”, mica fuocherelli magici. Taniche di
benzina, non fiammiferi. Nessuno cerca più le impronte dell’Uomo
Fiammifero. Sarà vecchissimo. Sarà pure morto.
Pier Giorgio Camaioni
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