Il
pezzo migliore di Alf Wilhelm Lundberg, quel Mannheim Love
(se ricordo bene), non potrà certo mai competere in fama con la
vecchia nostra Chitarra Romana, una delle più classiche
canzoni/stornello italiane. Del resto Alf è di Trondheim
e quello che suona è un chitarrone molto particolare, con tasti a
trapezio e 8 corde (due La in più), tenuto in piedi e
abbracciato come un violoncello, con tanto di puntale e disco
metallico antiscivolo. E Mannheim Love non la puoi
canticchiare, nemmeno “in sordina” e “sotto un manto di
stelle”.
Non possiede parole. Ha un motivo (poco) conduttore delicato, struggente e sfuggente, quasi nascosto, che “non puoi” ricordare. Infatti non me lo ricordo. Eppure è passato tra le possenti travi lignee della chiesa, tra gli altari barocchi dei muri maestri, sfiorando l’involontaria eleganza del pavimento a semplici quadrotti rossi alternati e i dipinti dei santi dalle prospettive scolastiche, tra i banchi severi e scomodi, tra le statue impassibili e l’altare principale vestito di ricca tovaglia bianca… E’ passato leggero e impalpabile, ma lasciando in chi c’era un segno. Un vento tra i tronchi di betulle; un raggio di mezzanotte tra i fiordi dell’estremo Nord; una cascata di suoni limpidi e freddi, ma non gelati. Ad osservarlo mentre suona in astrazione, del giovane Alf noti le prolungate mani da (ex) pianista che “articolano” sulle (8) corde come sull’infilata di tasti d’avorio di un Bosendorfer. Difatti quando fa Bach non “senti” una chitarra. Ma ti pare anche che suoni un’arpa immaginaria, quando - orecchio sinistro sul legno del manico - passeggia sulla tastiera a velocità controllata e a scientifiche falcate da quattrocentometrista ad ostacoli… prima di ricordarsi che alla fine quella è una chitarra e che un flamenco energetico è d’obbligo. Ma senza esagerare.
Non possiede parole. Ha un motivo (poco) conduttore delicato, struggente e sfuggente, quasi nascosto, che “non puoi” ricordare. Infatti non me lo ricordo. Eppure è passato tra le possenti travi lignee della chiesa, tra gli altari barocchi dei muri maestri, sfiorando l’involontaria eleganza del pavimento a semplici quadrotti rossi alternati e i dipinti dei santi dalle prospettive scolastiche, tra i banchi severi e scomodi, tra le statue impassibili e l’altare principale vestito di ricca tovaglia bianca… E’ passato leggero e impalpabile, ma lasciando in chi c’era un segno. Un vento tra i tronchi di betulle; un raggio di mezzanotte tra i fiordi dell’estremo Nord; una cascata di suoni limpidi e freddi, ma non gelati. Ad osservarlo mentre suona in astrazione, del giovane Alf noti le prolungate mani da (ex) pianista che “articolano” sulle (8) corde come sull’infilata di tasti d’avorio di un Bosendorfer. Difatti quando fa Bach non “senti” una chitarra. Ma ti pare anche che suoni un’arpa immaginaria, quando - orecchio sinistro sul legno del manico - passeggia sulla tastiera a velocità controllata e a scientifiche falcate da quattrocentometrista ad ostacoli… prima di ricordarsi che alla fine quella è una chitarra e che un flamenco energetico è d’obbligo. Ma senza esagerare.
La
Chiesa di Sant’Agostino di don Giorgio, insomma, non
ospita chitarristi qualsiasi: dopo la “chitarra sarda preparata”
di Paolo Angeli ad aprile, ecco questa “norvegese”
dell’originale ragazzo dall’indubbia nazionalità. Dell’altro
concerto come in questo, è però destino che non resti niente in
testa se non l’emozione. Mannaggia com’è complicata e insolita,
‘sta Mannheim Love. E non esiste il CD. Ma quando la buona
musica è anche poesia non serve neanche scriverla. Bisogna esserci
quando succede. In pochi è meglio.
Pier
Giorgio Camaioni
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