Prima
di tutto, voglio ricordare i loro nomi: Christine Hodali, Milad
Qunebe, Ahmed Alrakh, Alaa Shehada, Saber Abu-Ashreen, Anas Arqawi,
Micaela Miranda, Nabil Al-Raee. I primi sei gli attori, gli ultimi
due i registi di Suicide Note from Palestine, la pièce teatrale
ispirata a Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane e rappresentata il 13 e
14 luglio scorsi nell'ambito del festival Cuore di Palestina
organizzato dai “Teatri di vita” di Bologna. La città emiliana
ha offerto un palcoscenico alla prima europea di questa produzione
del “Freedom Theatre”, il “Teatro della libertà” che ha sede
nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Il titolo parla da sé:
tra teatro fisico e videoarte, l'opera racconta allegoricamente la
storia della Palestina e come è vista dalle giovani generazioni dei
territori occupati.
Protagonista
è la giovane Amal (Christine Hodali), in rianimazione in un ospedale
onirico, prigioniera dei suoi incubi, costretta a un'immobilità da
cui cerca di fuggire, ora stordita ora aggredita da figure
caricaturali (esplicite allegorie delle forze politiche che hanno
deciso la storia della Palestina dal 1948 in poi), osservata in
continuazione da una telecamera che un aggressivo soldato in divisa
nera le punta contro come un'arma. Le riprese sono trasmesse su
televisori accatastati ai lati della scena, mentre altre immagini
scorrono sullo schermo al centro del fondale. E le immagini dialogano
con le parole urlate e le risate sguaiate, la musica classica e
moderna a altissimo volume, la gestualità accentuata a fini satirici
o drammatici, le scorribande grottesche e le danze infernali, gli
scontri fisici e verbali che si succedono sul palcoscenico. Ma poi ci
sono le pause delle “arie-coro” di Amal, che intona versi e
preghiere, decisa a non arrendersi anche se confessa: “Mi manca con
angoscia una terra che non ho mai toccato. / Ho paura che l'angoscia
mi renda schiava, imprigionata in una gabbia di lacrime”.
Lo
spettacolo, recitato in lingua palestinese (nessun sottotitolo; agli
spettatori sono state consegnate due paginette con le tracce delle
scene, riportati per intero solo i due monologhi di Amal), ci ha
immerso nello spirito della resistenza culturale messa in atto dal
“Freedom Theatre”. Quindi ci ha emozionato. La pièce è
piuttosto ingenua, ma non credo che, in questo caso, l'interesse
debba essere semplicemente artistico. La mia attenzione, almeno, è
stata catalizzata dall'esistenza del “Freedom Theatre”, dalla sua
storia e da chi lo ha animato e lo anima. Prima di tutto Nabil
Al-Raee, che del “Teatro della Libertà” è anche il direttore
artistico. A chi non sapesse niente di lui, basterebbe inserire il
suo nome in un qualunque motore di ricerca per scoprire che è stato
arrestato nel 2012 dalle forze israeliane con accuse mai provate.
Liberato sotto cauzione dopo un mese di prigione (e annesse torture e
minacce) anche grazie alla mobilitazione dell'opinione pubblica
internazionale, ha ripreso la direzione del teatro. Tra le presunte
accuse, c'era quella di un suo coinvolgimento nella morte di Juliano
Mer Khamis, precedente direttore artistico del “Freedom Theatre”,
freddato a colpi di pistola da un uomo a volto coperto a qualche
centinaio di metri dal teatro che aveva rifondato, seguendo le orme
della madre Arna Mer. Israeliana sposata al palestinese cristiano
Saliba Khamis, ai tempi della prima Intifada, Arna si era schierata a
favore della popolazione araba. E non solo a parole: a Jenin aveva
fondato lo “Stone Theatre” (il “Teatro delle pietre”), luogo
di resistenza all'invasione israeliana attuato attraverso la cultura
e rivolto alle giovani generazioni secondo molti ormai senza futuro.
Concedere loro di esprimere paure, rabbia, frustrazione; offrire una
possibile normalità in una terra difficile come la West Bank;
promuovere una coscienza civile che si trasformasse in resistenza non
violenta: questi i fini di Arna, documentati nell'intenso film che le
hanno dedicato il figlio Juliano e Danniel Danniel (Arna's Children,
2013). Dopo la morte della fondatrice, molti dei bambini cresciuti
allo “Stone Theatre” avrebbero preso parte in vari modi alla
lotta contro l'occupazione dei territori palestinesi.
Il
“Teatro delle pietre” veniva intanto distrutto nel 2002. Juliano,
divenuto nel frattempo un affermato attore israeliano, ridarà vita
al progetto della madre insieme allo Zakaria Zubeidi (leader delle
Brigate Al-Aqsa) che era stato suo studente: nel 2006 nasce il
“Freedom Theatre”. Di cui ora è direttore artistico Nabil
Al-Raee, accusato di essere coinvolto nell'assassinio di Juliano e
anche di collaborare con Zakaria.
Terra
complessa, la West Bank. Per cui ci limitiamo a riportare fatti noti.
A noi
qui importa ora che sia ancora vivo il “Freedom Theatre” col suo
Freedom Bus, che porta periodicamente gli attori nei villaggi più
sperduti della Cisgiordania, dove storie quotidiane di morte e di
violenza vengono ascoltate e riproposte su un palcoscenico
improvvisato davanti a coloro che le hanno raccontate.
“Non
sappiamo come torneremo a Jenin”, dice Nabil Al-Raee al termine
dello spettacolo. Sembra sereno, umilmente consapevole di essere uno
dei tanti che resistono. E sorridono i volti davvero radiosi e felici
dei giovani attori palestinesi, solo sei di coloro a cui il “Freedom
Theatre” ha concesso un'opportunità di esperienza formativa e di
crescita. Di coraggio e speranza, vorremmo dire. Ci sentiamo di
ringraziare dunque i “Teatri di vita” per averci permesso di
sentire, per quanto possibile, un po' di quella Palestina che ci pare
credere nella resistenza culturale.
Sara
Flamiani
Nessun commento:
Posta un commento