Ci
capitiamo per caso nell’attraversare i Giardini, diretti in
centro e ai luoghi canonici del Festival, e non si può non notarli:
disseminati per il parco, sono giovani e tutti in bianco, bianchi gli
abiti, i camici, bianchi gli oggetti di scena; spiccano tra il verde,
così come le grandi lettere verticali che annunciano “FOLLIA”.
Che fate? chiediamo. Spettacolo sulla follia, più tardi, bisogna
prenotasi. Ci prenotiamo. Si entra a gruppi, intervalli di un quarto
d’ora. Infermieri in camice bianco le nostre guide nelle stazioni
di questa Via Crucis del disagio mentale. “Sconsigliati ad
un pubblico non adulto” avverte il pieghevole: già, che sia realtà
o finzione scenica, la follia ci turba, forse per questo la vestiamo
di bianco. La bravura dei giovani allievi d’Accademia ci attrae
verso ogni scena con la perentorietà di una calamita: anche senza i
due “infermieri” a guidarci scivoleremmo dall’una all’altra
risucchiati dalla forza attrattiva di quei monologhi.
Ciascuno offre parole alla propria follia, piccola babele di “parole in libertà”: inglese, spagnolo, russo, italiano, romanesco, napoletano…, “lingue e linguaggi diversi, echi di battute richiamate alla memoria e lanciate per l’aria”. Ci accolgono la gestualità enfatica e il piglio predicatorio del giovanotto atletico in tulle bianco da sposa e fiore bianco tra i capelli; poco più avanti un altro farnetica e frantuma in scoppi di collera convulsa la ripetizione ossessiva del suo mi ama, mi ama, ha detto che mi ama….; una fanciulla desolata si canta addosso la nenia spagnola e tristissima di un dolore lontano, che si spegne in un discorso fitto e sommesso, sussurrato a qualcuno del pubblico preso per mano e avvicinato a sé; poi gli scoppi di “saggia” dissacrante follia del ragazzone tutto salute che a cavalcioni del lettino arringa una personale immaginaria platea con gli ossessivi nun fumate ‘a ddroga, nun fumate… che aprono e chiudono il percorso circolare dei suoi improbabili “ragionamenti”; l’infantile petulante argomentare della fanciulla che non sa se è se stessa o un’altra, quell’altra, una certa Mabel chissà; la florida romana che nel suo slang di borgata interroga il mondo intero sul ritardo di un lui che mai verrà, telefona anche alla moglie di lui, sì, che sappia spiegarle perché tarda, quello là, che le ha promesso che viene, con chi crede d’avere a che fare eh!... e si prepara per lui puntigliosa e furiosa indossando una scarpa sì e una no… Poi il terzetto di giovani russi, la cui foga declamatoria si scompone in accessi di sgangherata furia e lancio di suppellettili…
Ciascuno offre parole alla propria follia, piccola babele di “parole in libertà”: inglese, spagnolo, russo, italiano, romanesco, napoletano…, “lingue e linguaggi diversi, echi di battute richiamate alla memoria e lanciate per l’aria”. Ci accolgono la gestualità enfatica e il piglio predicatorio del giovanotto atletico in tulle bianco da sposa e fiore bianco tra i capelli; poco più avanti un altro farnetica e frantuma in scoppi di collera convulsa la ripetizione ossessiva del suo mi ama, mi ama, ha detto che mi ama….; una fanciulla desolata si canta addosso la nenia spagnola e tristissima di un dolore lontano, che si spegne in un discorso fitto e sommesso, sussurrato a qualcuno del pubblico preso per mano e avvicinato a sé; poi gli scoppi di “saggia” dissacrante follia del ragazzone tutto salute che a cavalcioni del lettino arringa una personale immaginaria platea con gli ossessivi nun fumate ‘a ddroga, nun fumate… che aprono e chiudono il percorso circolare dei suoi improbabili “ragionamenti”; l’infantile petulante argomentare della fanciulla che non sa se è se stessa o un’altra, quell’altra, una certa Mabel chissà; la florida romana che nel suo slang di borgata interroga il mondo intero sul ritardo di un lui che mai verrà, telefona anche alla moglie di lui, sì, che sappia spiegarle perché tarda, quello là, che le ha promesso che viene, con chi crede d’avere a che fare eh!... e si prepara per lui puntigliosa e furiosa indossando una scarpa sì e una no… Poi il terzetto di giovani russi, la cui foga declamatoria si scompone in accessi di sgangherata furia e lancio di suppellettili…
Un
particolare attira la nostra attenzione: mentre il percorso si snoda
e il pubblico oltrepassa le singole scene, i “matti” continuano
ad essere tali, ogni attore dentro il proprio ruolo senza uscite o
distrazioni, perché la finzione si fonda interamente col reale.
Il
percorso è concluso, siamo ormai ai bordi del parco: un passo, un
gradino, si torna in strada tra i “normali”. Ma quei flash di
follia, scombicchierata o dolente, furiosa o assorta, romantica o
disperata, ci ricordano che il passo è breve, tra norma e
deragliamento, quanto quel gradino che separa il parco dalla strada.
Grazie a questi giovani allievi attori e registi, mostruosamente
bravi, bravi da matti.
Sara
Di Giuseppe
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