Guai a
parlar male dei “miti”: si corre il rischio di prendersi una
pallottola in pieno petto. Il fatto è che non si stava parlando male
di Hiroshima mon amour (operazione impossibile e un po' da
mentecatti). La riflessione riguardava piuttosto il taglio che
Marguerite Duras, nel ruolo di sceneggiatrice, dà al monologo
tutto al femminile, lungo 92 minuti, che caratterizza il film di
Alain Resnais e l'interpretazione ancora oggi stupefacente di
Emmanuelle Riva. Come tutti coloro che amano il cinema ormai
sanno, Hiroshima mon amour è una di quelle classiche
pellicole che si presta alle interpretazioni più fantasiose.
Spesso qualcuno ne coglie il senso profondo e ne offre una lettura aderente al lavoro. In altre occasioni, invece, si tende a diventare tutti psicanalisti e critici cinematografici, e gli effetti sono devastanti. La prima volta che vedemmo Hiroshima mon amour fu al circolo Arci di Urbino, una tombola di anni fa. All'uscita, piuttosto che raccontarci dell'impossibilità dell'unione e della pienezza di sé, della vittoria della segmentazione, del frammentario e della dissociazione di quello che era stato lo splendido gioco di specchi di Resnais, ci lasciammo andare a un corteo spontaneo, la cui parola d'ordine era “USA boia”. Più tardi, non di molto, ci soffermammo sulla tecnica del montaggio discontinuo, sulla differenza d'impostazione dei due direttori della fotografia (Sacha Vierny e Michio Takashi), della diversità profonda dei narrati francese e giapponese ma, soprattutto, “sul senso quasi borgesiano dell'impossibilità di essere uno perché viviamo nell'istante, e ogni istante ci condanna alla nascita ma anche alla morte di una parte di noi stessi” (Jean Douchet). Terminata la proiezione, con ancora negli occhi un altro splendido restauro curato dalla Cineteca di Bologna diretto da Renato Berta, ci stavamo soffermando sulla ripetitività della struttura narrativa curata dalla Duras, quando uno spettatore con qualche anno più di noi sulle spalle si è infilato in una discussione sulla “anti-retorica” di Resnais quando a nessuno era venuto in mente di citarla. “La colpa è dei sottotitoli italiani – ci ha detto rimproverandoci – e della voce troppo teatrale di Andreina Pagnani”, che della Riva è stata la doppiatrice nell'edizione italiana. Peccato che la voce della Riva di questa sera, fosse quella originale (il film è sottotitolato) e che nessuno si sia sognato di dare del “retorico” a Resnais né tantomeno a Marguerite Duras. Il problema, in fondo, è sempre quello. Oggi di cinema parlano tutti, ma proprio tutti. Qualcuno si spinge oltre e si avventura in disquisizioni analitiche senza alcuna via d'uscita. Far tesoro del dono del silenzio mai. Ora sappiamo a chi indirizzare quella famosa pallottola in pieno petto.
Spesso qualcuno ne coglie il senso profondo e ne offre una lettura aderente al lavoro. In altre occasioni, invece, si tende a diventare tutti psicanalisti e critici cinematografici, e gli effetti sono devastanti. La prima volta che vedemmo Hiroshima mon amour fu al circolo Arci di Urbino, una tombola di anni fa. All'uscita, piuttosto che raccontarci dell'impossibilità dell'unione e della pienezza di sé, della vittoria della segmentazione, del frammentario e della dissociazione di quello che era stato lo splendido gioco di specchi di Resnais, ci lasciammo andare a un corteo spontaneo, la cui parola d'ordine era “USA boia”. Più tardi, non di molto, ci soffermammo sulla tecnica del montaggio discontinuo, sulla differenza d'impostazione dei due direttori della fotografia (Sacha Vierny e Michio Takashi), della diversità profonda dei narrati francese e giapponese ma, soprattutto, “sul senso quasi borgesiano dell'impossibilità di essere uno perché viviamo nell'istante, e ogni istante ci condanna alla nascita ma anche alla morte di una parte di noi stessi” (Jean Douchet). Terminata la proiezione, con ancora negli occhi un altro splendido restauro curato dalla Cineteca di Bologna diretto da Renato Berta, ci stavamo soffermando sulla ripetitività della struttura narrativa curata dalla Duras, quando uno spettatore con qualche anno più di noi sulle spalle si è infilato in una discussione sulla “anti-retorica” di Resnais quando a nessuno era venuto in mente di citarla. “La colpa è dei sottotitoli italiani – ci ha detto rimproverandoci – e della voce troppo teatrale di Andreina Pagnani”, che della Riva è stata la doppiatrice nell'edizione italiana. Peccato che la voce della Riva di questa sera, fosse quella originale (il film è sottotitolato) e che nessuno si sia sognato di dare del “retorico” a Resnais né tantomeno a Marguerite Duras. Il problema, in fondo, è sempre quello. Oggi di cinema parlano tutti, ma proprio tutti. Qualcuno si spinge oltre e si avventura in disquisizioni analitiche senza alcuna via d'uscita. Far tesoro del dono del silenzio mai. Ora sappiamo a chi indirizzare quella famosa pallottola in pieno petto.
Massimo
Consorti
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