Quando
siamo arrivati, lui, Vincenzo
Di Bonaventura,
era già nella sala della Bussola,
curvo sui cavi, i microfoni e i bonghi da collocare e tarare per lo
spettacolo.
Via
via, sono arrivati gli altri spettatori, a gruppetti, attratti dalla
qualità degli spettacoli proposti da Note
di Colore.
Si sono salutati e, con un sottile senso di spaesamento, si sono
seduti compostamente per l’imminente cena di vongole e pesce fritto
(annaffiata con un delicato vino in brocca). Lui, Vincenzo,
allestito il suo “spazio essenziale”, si è appartato per
rientrare poco dopo in sala, nel suo abito nero di scena, ed è
venuto a sedersi al nostro tavolo,
conversando del solipsismo, secondo cui “le leggi provengono dagli strati più interni dell’individuo, pertanto hanno una credenza e una validità molto più veritiere di tutte quelle regole che altri individui avrebbero stabilito per conto nostro” (fonte: Wikipedia). Infatti, nella vita, come nel teatro, Vincenzo Di Bonaventura dà espressione alla voce più profonda e intima di se stesso. Il suo è un processo antico di autenticazione di sé, ma anche di ricerca meticolosa delle tecniche vocali, mimiche e gestuali più consone al suo modo di essere e di fare teatro. I suoi maestri d’ispirazione infatti sono Jacques Lecoq, Dario Fo e Carmelo Bene. I risultati di questo lungo, quotidiano lavoro sono eccellenti.
conversando del solipsismo, secondo cui “le leggi provengono dagli strati più interni dell’individuo, pertanto hanno una credenza e una validità molto più veritiere di tutte quelle regole che altri individui avrebbero stabilito per conto nostro” (fonte: Wikipedia). Infatti, nella vita, come nel teatro, Vincenzo Di Bonaventura dà espressione alla voce più profonda e intima di se stesso. Il suo è un processo antico di autenticazione di sé, ma anche di ricerca meticolosa delle tecniche vocali, mimiche e gestuali più consone al suo modo di essere e di fare teatro. I suoi maestri d’ispirazione infatti sono Jacques Lecoq, Dario Fo e Carmelo Bene. I risultati di questo lungo, quotidiano lavoro sono eccellenti.
Giunto
al microfono, Vincenzo
ha fornito una breve spiegazione dell’opera di Fo:
l’autore, durante un viaggio in Cina,
ha sentito che c’erano delle assonanze tra la lingua cinese e il
dialetto lombardo-veneto e, affascinato dalla figura della tigre, ha
scritto il testo che racconta dell’incontro tra un guerriero e una
tigre. Il guerriero è costretto a fermarsi e abbandonare l’armata
cinese perché ferito ad una gamba; la tigre, anziché sbranarlo, lo
guarisce a furia di leccate sulla parte lesa. Vincenzo
Di Bonaventura
ha utilizzato non il dialetto lombardo-veneto, ma il grammelot
marchigiano-abruzzese, e ha interpretato tutti i personaggi del
testo di Fo,
passando agevolmente dall’uno all’altro. Dialetto e italiano
insieme, toni e timbri deformati al limite del possibile, ruggiti di
animali, contorsioni della bocca e del volto, gestualità, il tutto
per creare un sapiente effetto caricaturale ed espressivo in un
ritmo sostenuto, per un’intera ora. Uno spettacolo pirotecnico ed
esilarante. Tutt’altro che noioso, a dimostrazione del fatto che la
profondità di un testo si può sposare con il divertimento. Morale
della favola? La tigre è la forza di ciascuno di noi, la forza
interiore che può guarire anche dal più mortifero dei mali. Come
dire: guarda in te, guarda nel profondo di te stesso, sii
solipsistico e troverai non solo la forza, ma anche occhi adatti per
assaporare la bellezza.
Vincenzo
Di Bonaventura,
in scena, ha fatto tutto da solo e, da solo, dopo aver caricato gli
attrezzi del “mestiere dell'attore” nel suo furgoncino, se ne è
ripartito, come il protagonista di La
Strada
di Federico
Fellini,
per un altro viaggio della vita e del teatro.
Lo
abbiamo salutato insieme al mare, un po’ meno composti e un po’
più forti della forza della tigre.
Maria
Teresa Urbanelli
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