Sul
palco del Festival si trovano inaspettatamente in contemporanea, i
due Umberti: slitta la presenza di Matteo Renzi e per effetto domino
si tira dietro (così che per un attimo mi diventa addirittura
simpatico il Renzi) il gradevolissimo imprevisto dei due filosofi in
coppia, a parlarci di Eroi e Antieroi, nel giorno penultimo del
brillante Festival in cui “La filosofia indaga il pop e il pop
racconta la filosofia”. Di eroine antiche ci parla Curi, e di
misoginia anch’essa antica: che Tiresia l’indovino fosse mutato
in donna per… punizione, la dice lunga sulla forza del pregiudizio
anche nella luminosa democratica Atene.
Sospiro di sollievo (tutto interiore) di metà del pubblico, quella maschile (“beh, se perfino loro…"). Sospiro di consapevolezza della metà femminile (“c’era da scommetterci, che ’sta storia viene da lontano…”). Da Senofonte (“…Le donne devono vedere meno cose possibili, capirne il meno possibile, porre meno domande possibili”) a Esiodo (“Zeus che tuona nelle nuvole, per la grande disgrazia degli uomini mortali ha creato le donne.”) l’attitudine misogina del mondo antico è radicata nel reale e si rispecchia nel mito. A partire da quello esiodeo di Pandora, fondatrice della genia delle donne, il génos gynaikôn, cui Afrodite ispira su comando di Zeus “un sentire impudente e un’indole scaltra”; Pandora “si serve della sua acconciatura e della sua maschera per giocare un gioco di seduzione e di scompiglio in un consorzio sociale pre-umano in cui è l'estranea”, portatrice di ambivalenza nell’aspetto soave di vergine casta che nasconde la lascivia e il “carattere di cagna” peculiare della donna.
Sospiro di sollievo (tutto interiore) di metà del pubblico, quella maschile (“beh, se perfino loro…"). Sospiro di consapevolezza della metà femminile (“c’era da scommetterci, che ’sta storia viene da lontano…”). Da Senofonte (“…Le donne devono vedere meno cose possibili, capirne il meno possibile, porre meno domande possibili”) a Esiodo (“Zeus che tuona nelle nuvole, per la grande disgrazia degli uomini mortali ha creato le donne.”) l’attitudine misogina del mondo antico è radicata nel reale e si rispecchia nel mito. A partire da quello esiodeo di Pandora, fondatrice della genia delle donne, il génos gynaikôn, cui Afrodite ispira su comando di Zeus “un sentire impudente e un’indole scaltra”; Pandora “si serve della sua acconciatura e della sua maschera per giocare un gioco di seduzione e di scompiglio in un consorzio sociale pre-umano in cui è l'estranea”, portatrice di ambivalenza nell’aspetto soave di vergine casta che nasconde la lascivia e il “carattere di cagna” peculiare della donna.
E’
sul terreno del tragico che invece si stagliano, potenti ed
emblematiche, figure di eroine in contrasto col misoginismo antico:
esempi di eroismo tradizionale o di grandezza nella dimensione del
male, tutte sono legate alla morte, all’oblazione di sé. Antigone
ne è l’archetipo, nella straordinaria coerenza con valori a lei
sacri: la sua dissidenza, tanto più imperdonabile perché femminile,
sfida non soltanto il νόμος δεσπότης, la legge del
sovrano Creonte, ma l’intero sistema di convenzioni sociali.
Portatrice del messaggio tragico e alto che per vincere è necessario
immolare, rinunciare, dunque, alla “felicità” è l’euripidea
Macarìa, figlia di Eracle, che ne “Gli Eraclidi”, immola la
propria giovanissima vita al volere degli dei perché i fratelli e
gli Ateniesi possano salvarsi e vincere. Nel suo nome è già il suo
destino: Macarìa, non a caso significa “felicità”.
Eroine,
pur se nel male, l’eschilea Clitennestra, e Medea che di
quest’ultima è riconoscibile erede: la loro grandezza è lo
“specchio riducente” di chi sta loro intorno; sono figure
“scandalose” il cui protagonismo assoluto relega le figure
maschili a ruoli convenzionali fino alla mediocrità. Come di fronte
ad Antigone si disegna la debole identità di Creonte, così la
figura di Medea sottolinea per contrasto l’identità convenzionale
e opportunista di Giasone (faremmo tutte la ola, in platea…). Il
loro ruolo è strettamente connesso con quello materno, le donne sono
coloro che generano, e la capacità generatrice può molto più della
forza tutta maschile esercitata sul campo di battaglia: generazione è
ciò che avviene nel corpo ma è anche generazione intellettuale.
Scopriamo allora che il mondo antico al di là della misoginia
riconosce nella donna questa potenza generatrice e la teme: perché
generazione intellettuale è anche ricerca e scoperta della verità,
è conoscenza; non è un caso se nel mondo antico gli indovini sono
donne, le uniche in possesso di un’autentica conoscenza del futuro…
La
metà femminile della platea è ormai decisa ad ascoltare Curi ancora
per ore, magari a portarlo in trionfo… Ma i minuti volano, tra
palco e platea, nel fluire dei temi che Curi dipana sapiente sfidando
la tirannia del tempo contingentato. Il rammarico di abbandonare
quelle fascinose e inquietanti evocazioni è compensato
dall’altrettanto coinvolgente argomentare di Galimberti. Dirompente
l’assunto da cui il secondo (solo in ordine temporale) Umberto
muove: sono eroi coloro che credono, perché la fede è follia. Essa
crede senza conoscere, crede dunque l’indimostrabile ed è questo a
renderla tollerante, poiché “il dialogo è possibile solo se
ritengo che colui col quale dialogo abbia un gradiente di verità
superiore al mio”. Intollerante è, al contrario, chi ritiene di
possedere la verità assoluta. Ecco dunque la “follia” del
Cristianesimo: esso ha “vinto” in Occidente perché l’ottimismo
del cristianesimo è aver promesso all’uomo che non morirà, aver
collocato in quel futuro la sua speranza. La sua vittoria, è la
vittoria della follia sulla ragione, là dove il paganesimo era
moderazione e misura nella consapevolezza della finitezza umana.
Ricordando Cartesio – dio è al di sopra del principio di ragione –
ribadisce che il dio, in quanto è follia è al di là delle leggi
morali: queste sono la pratica della ragione, per questo la Chiesa ha
tradito il suo ruolo nel momento in cui ha preteso di essere agenzia
etica. L’etica non è religione.
Agitazione
sulle sedie - non proprio delle Frau… - ma siamo in finale, e un
intervento di Curi riconduce il ragionamento a contatto con le nostre
realtà: ancora qualche scambio di battute, un pacato pessimistico
excursus del Galimberti nel nostro vivere odierno, nell’assenza di
scopo dei giovani che sentono di non avere un futuro e ai quali
sappiamo solo dire speriamo, auspichiamo… E’ la rassegnazione
nella passività.
L’incontro
termina, appena il tempo di preparare il palco per i “Jazzismi” a
seguire. Sì,
il presente non è davvero granché, ma fa bene sentirselo confermare
con intelligenza e ironia. Grazie, Umberto & Umberto!
Sara
Di Giuseppe
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