30/07/13

Ricordando il Festival dei 2 Mondi. Il concerto della pianista Jin Ju: Debussy à midi

Spettatori solo in platea. I bei palchi, a quest’ora tenuti vuoti, possono finalmente anche loro godersi in pace il concerto. Non potranno applaudire, ma quanto gli piacerà. Dalla mia postazione (fila 4 posto 13), involontariamente sotto controllo con la coda dell’occhio, il palco 21 l’ho visto addirittura commuoversi. Ma prima del concerto si era spazientito anche lui, per la sgradevole voce da tiggì che chissà quanto ancora si sarebbe dilungata nella piatta introduzione a Debussy, se il competente pubblico non fosse insorto: “Basta!” “Basta!” “Con Menotti era un’altra cosa!” (signora della mia stessa fila, cinque posti più a destra).
Stupendo: l’annunciatrice si spegne, come da telecomando. Ci si guarda in faccia. Vittoriosi. Oh, yes! T’accorgi già dal pubblico che sarà un concerto memorabile. Rari smartphone, leggera prevalenza femminile, età media appena sostenuta, ma con netti salti d’età: dove mai li trovi dei ragazzini ad ascoltare Debussy.
Jin Ju, cinese, spicca elegantissima, in rosso. Scarpe pure rosse. Righine rosse sullo sgabello dello Steinway, fettucce rosse tra le chiavi delle corde che si riflettono sul coperchio. Toh, rosso pure il mio moleskine... Niente spartiti. I 12 Studi di Debussy, scritti in memoria di Chopin, cominciano proprio dalle “elementari”: prima la scala Do Re Mi Fa Sol e indietro Fa Mi Re Do, poi su di quinta Sol La Si Do Re e indietro Do Si La Sol, ma le cose facili finiscono qui perché già dagli arpeggi e dagli intervalli cromatici si arriva a vere esplosioni pirotecniche. Jin Ju si posiziona subito su un livello di eccellenza, per tecnica, espressività, potenza, originalità, ma di Studio in Studio è un crescendo continuo. Immagino uno Studio 13, poi un 14, un 15… Debussy non avrebbe spaventato Jin Ju.
Ma poi la leggerezza: può averla così solo chi ha passato ore a studiare e ad esercitarsi con una tastiera disegnata su una tovaglia (Jin bambina non poteva permettersi un pianoforte a casa).
I tasti sembrano abbassarsi da soli, mossi dal pensiero, senza la pur lieve pressione dei polpastrelli. Penso ai passi da gatto dall’agilità nascosta, imprevedibili e misteriosi, pronti allo scatto ma placidi. E i famosi “incroci di mani” di cui - diciamocelo - Debussy abusava un po’, mai visti così naturali e mai in affanno. Ricordano voli di cicogne vicino al nido, volteggi di gru della Manciuria dell’isola di Hokkaido, mentre escono suoni quasi giapponesi, o alla Jarrett (3° Studio). A ogni nuovo attacco le mani scendono parallele dall’alto al ralenti, come frenate da ali, come coppie di fenicotteri rosa di Molentargius in atterraggio sullo stagno. A volte le mani passano attraverso i capelli liscissimi, come tra una tenda di seta nera. Ma non mancano le velocità supersoniche, allo Steinway vengono i sudori, i suoi acciai tesi s’arroventano, ma lui rimane impassibile.
Nell’Étude retrouvée poi c’è di tutto, opulenza, colore, potenza, dolcezza. E Debussy quando lo scrisse stava male. Musica pura. Molto La minore.
Ma mezzogiorno è passato da un bel po’, viene fame, occorre un “bis” diverso, quasi disimpegnato se non facile, defatigante anche per Jin Ju. E allora niente di meglio della “doppia gavotta” (di autore che non ricordo) in La minore, orecchiabile, leggera, delizioso aperitivo. Potrebbe esser suonata anche alla spinetta. Motivo nitido ed elegante, più volte ripetuto ma ogni volta nuovo nei contrappunti. Veloce, specie sulla sinistra che pare un motorino elettrico, ma senza ansia. Stupefacente. Applausi. Ragazzini che schizzano in piedi. Felici anche i palchi, dicevo, specie il 21…
Quando usciamo abbiamo una faccia un po’ così, un’espressione un po’ così, abbiamo visto Shanghai.

Pier Giorgio Camaioni

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