Renato
Minore è uomo dai mille tratti e volti: un caleidoscopico abitante
di cangianti mondi letterari che attraversa, con la consumata
autorevolezza e la vorace curiosità, presto trasformata in raro
acume critico, del viaggiatore dotto e consapevole. Abruzzese di
nascita, anche se romano d’adozione, la Città Eterna ne ha seguito
la parabola crescente sia come studioso di letteratura, che come
saggista, scrittore, poeta, giornalista a capo della terza pagina
nazionale de “Il Messaggero” e docente esperto di questioni
vicine alla comunicazione mass-mediatica.
La
serata, nell’incontaminato palcoscenico di Castel Basso, delizioso
paesino del teramano ancora bagnato dal fascino intatto e sereno dei
borghi italiani (in cui Minore ha fatto un viaggio - assieme al
giornalista Simone Gambarcorta e alla scrittrice Lucilla Sergiacomo -
all’interno del suo universo di uomo di lettere) ha messo in
risalto proprio questa sua tangibile e prioritaria vocazione
all’eclettismo di genere. Minore non ne fa un mistero; né lo
riduce ad un eccesso di protagonismo, a lui indifferente. La
poliedricità intellettuale è un fatto connaturato alla sua
dimensione di indagatore e “speleologo”, direbbe lo scrittore
richiamando Caproni, nel senso di chi misura, interpreta, scandaglia
e plasma gli svariati materiali di studio per farne un unico denso
grumo di senso. Questo
vulnus fondamentale lo ritroviamo in uno dei due grandi filoni
che caratterizzano la sua produzione - intendiamo la carriera da
recensore o critico letterario - visto che l’esegesi dei testi non
si risolve certo, per Renato, nel racconto o la produzione di
emozioni generate spontaneamente dalle suggestioni di un incontro
fugace ma procede per un lavoro di indagazione ed ascolto che,
maturando nel tempo, offre squarci nuovi ed orizzonti di senso
vivificanti: ovvero un surplus di interpretazione che affonda le
proprie radici tanto in una dimensione esteriore - la forma più
evidente - quanto in quella interiore dell’opera - le strutture
portanti che la innervano.
La
poesia in fondo - l’altra direttrice del discorso autoriale -
conferma Minore nell’ansia di ricerca sempre rinnovata da parte di
chi si accredita, per dirla con Starobinsky, munito di un provvidente
“diritto di sguardo”, così da restituirci i profili di una
realtà finalmente disvelata, portata ad un grado di luce diverso da
un “intelletto creativo”, quello del critico, mosso unicamente
dal bisogno di mettere il lettore all’interno dei molteplici
movimenti di illustrazione della realtà da parte della letteratura. Dallo
spirito “ungarettiano” delle origini, la metà degli anni
Sessanta, alle poesie più sperimentali degli anni Settanta ed
Ottanta, con “Non ne so più di prima” ad esempio, trascorre un
tempo che vede Minore impegnato in un discorso variegato e
poliedrico, portato su direzioni diverse anche se centrato attorno ad
un disegno di fondo unitario ed omogeneo: il confronto serrato con la
realtà attraverso il rapporto mutevole tra il sé e l’altro. Non
a caso i suoi poeti di riferimento risultano le voci problematiche e
sofferte del Novecento che hanno avvertito l’imminenza e
l’incombenza dei cambiamenti e li hanno adattati al dettato
poetico, sottoposto a continui processi di ristrutturazione tanto
stilistica quanto concettuale. E’ il caso di Andrea Zanzotto, per
Minore uno dei più complessi e dotti poeti del Novecento italiano,
eppure capace di rivelarsi con una maggiore immediatezza di toni e
sentimenti. Un manipolatore di generi e registri che ha saputo
condensare, nelle incandescenze di una lingua destrutturata ed
implosiva, gli scenari inquietanti di un’umanità lacerata,
convulsa, segnata da profondi rivolgimenti. Ugualmente potrebbe dirsi
di Giorgio Caproni, il cantore di liriche appassionate e, assieme,
delle aporie del moderno in uno stile rivisitato, prosasticamente
spigoloso ed aspro nella modulazione di una sintassi poetica dalle
cadenze sorprendentemente innovative.
In
fondo come mi diceva lo stesso Renato, la poesia è il banco di prova
della sua carriera di scrittore, il laboratorio incessante delle
idee, il cantiere con i materiali finemente abbozzati da assembrale,
la spina dorsale del suo versante più avanzato di ricercatore
irrimediabilmente ammalato di cupio scribendi. Ecco
allora le esigenti scommesse, il tono sempre ravvivato dalla felicità
della parola che, nel momento stesso in cui si enuncia e rischiara,
brucia veloce la sua fiamma per lasciare i bagliori di un logos
rigenerante. Come la barchetta di Flaiano, l’amico confidente, nel
suo ultimo documentario Oceano Canada, tratta dalla carta
strappata di un taccuino di viaggio e presto abbandonata ai flutti di
una cascata d’acqua. Insomma, lo stesso intatto candore, lo stesso
preciso, pervadente senso di friabilità ravvivato dalla coscienza
della scrittura come atto di potenziamento dell’essere, slittamento
di possibilità verso una verità ricomposta e suggerita, coltivati
nel silenzio e nel lavoro paziente di scavo.
In
fondo le sue opere romanzate per eccellenza sulle vite dei poeti (Il
Leopardi del 1987 - finalista al Premio Strega, vincitore dei
premi Castiglioncello e Capri assieme al “Rimbaud” del 1991 -
premio Selezione Campiello) vogliono trasferire su un piano narrativo
ora più carezzevole - come per l’usignolo di Recanati - ora più
spezzato - come per il ribelle di Roche - le cadenze di
“illuminazioni” rinascenti, il gioco chiaroscurale dell’animo
umano finalmente riscattato. “Bugie di poeti” per sfuggire alla
girandola del tempo riconoscendo intatta dignità al valore dei
ricordi e alla purezza del sentimento.
Alceo Lucidi