a.l.
Inizio con una considerazione di carattere generale: quella ossia
della percezione della musica da parte degli osservatori esterni e
dei non addetti ai lavori come di un modo ovattato e al di sopra
delle nostre più scontate realtà, un universo di incommensurabile e
quasi irraggiungibile Bellezza (la B maiuscola è di Muti) eppure
così decisivo nella formazione del gusto etico ed estetico di una
nazione. Come la vede oggi, Luca Marziali, la musica intesa come
strumento di educazione?
l.m.
Sono troppo di parte. Io imporrei l’ascolto della musica classica
sin dal nido e lo studio di uno strumento obbligatorio dalla scuola
elementare. L’indirizzo musicale introdotto nelle scuole medie è
stata indubbiamente una buona cosa. Nei conservatori Italiani siamo
chiamati ad una preparazione solistica ma spesso dimentichiamo che la
quasi totalità dei
musicisti è chiamata a svolgere un’attività
orchestrale. Abbiamo ragazzi che con disinvoltura eseguono un
Capriccio di Paganini ma non sono in grado di eseguire un banale
passo orchestrale. Diversificare dunque la preparazione è secondo me
fondamentale.
a.l.
Come è nata la tua passione per la musica e di quali valori si è
alimentata?
l.m. Sono l’ultimo di 4 figli. Mio padre, violinista
dilettante ma talentuoso ha tentato di trasmettere la sua passione
ad ogni figlio... A sei anni, in pochi mesi, con facilità, ho
incominciato ad eseguire delle piccole melodie e allora decise di
iscrivermi al liceo musicale. . Il liceo musicale era per me come un
parco giochi… tanti amici, tante lezioni, tanti saggi. Ancora oggi,
gli amici che frequento e con i quali mi trovo a mio agio sono i
coetanei dei lontani anni 70 e i giovani, giovanissimi docenti di
quel tempo ora sono divenuti attempati colleghi.
a.l.
La tua, diciamolo pure, è stata una carriera brillante in cui hai
avuto modo di collaborare con musicisti di varia estrazione
professionale e di indubbia rilevanza internazionale. Ti laurei nel
1986 con il massimo dei voti al Conservatorio “Rossini” di Pesaro
in violino ed hai come maestri, nelle varie scuole di formazione in
cui ti alterni, Pasquier, Amoyal, Stefanato, Rossi.
Quanto, nel tuo caso, si deve all’estro innato, al cosiddetto
talento, e quanto, invece, al duro lavoro di perfezionamento del
suono, al miglioramento costante della capacità e della tenuta
interpretative, al raffinamento della tecnica violinistica così
specializzata.
l.m. Il
talento non è che un ingrediente, uno dei molti necessari per
intraprendere e conseguire risultati nel nostro mondo. C’è bisogno
poi di una passione smisurata, di una famiglia alle spalle che possa
comprenderti e supportarti ed infine c’è bisogno di tanta ma tanta
fortuna. Il duro lavoro è condizione
imprescindibile. Durante tutta l’infanzia ed adolescenza ho vissuto
come una colpa il fatto di non studiare tanto quanto avrei dovuto.
Ora mi sento in colpa perché le molte ore che dedico allo studio
sottraggono tempo ai miei figli e a mia moglie.
a.l.
A proposito dell’uomo e di una sua generale condizione spirituale,
da intendere, in questo caso, come riconoscimento di un’universale
dignità e coscienza del proprio essere, spesso tradite dalla
volontà di possesso e la brama di potere all’interno delle
dinamiche sociali, il grande musicologo Massimo Mila parlava di una
“religione”, un ambito incontaminato di valori alti, puri,
disinteressati ai quali la musica “dionisiaca” e traboccante di
sentimento, preromantica, di Mozart aveva in qualche modo assolto.
Mila dice - in una raccolta di scritti sul compositore salisburghese
- che “non si crede ai superuomini se si crede nel valore
dell’uomo” (1), rifuggendo così da pregiudiziali ideologiche.
Quanto conta, secondo te, nella musica restare fedele alle radici
dell’uomo senza cadere nello sterile manierismo o, peggio ancora,
nel compiacimento intellettuale e – come fece Mozart, ma come
potremmo desumere anche in alcuni compositori russi, tipo Tchajkovsky e Rachmaninov – riportare al centro dell’atto e del dibattito
creativo la sostanziale superiorità della natura umana (pensiamo al
finale liberatorio, di “perdono”, (2) de “Le Nozze di Figaro”)?
l.m.
La Musica, e l’Arte tutta, pone le sue radici nell’artigianato,
che è lavoro, pazienza, impegno costante e ricerca instancabile del
miglioramento. Tutto ciò per inseguire la “Bellezza”, che è
salvifica e sicuramente innalza lo spirito. Sono certo che insegnare
questo percorso alle generazioni prossime renderebbe migliore la
nostra intera società. Guardo alla Germania o al Giappone – paesi
nei quali ho viaggiato – mi accorgo che l’attenzione riservata
alla cultura musicale, non solo dalle istituzioni ma dal popolo
stesso, è tutt’altra rispetto all’Italia dove l’autismo
accademico, la mancanza di un’adeguata educazione all’ascolto e
alla pratica musicale nelle scuole, minimalista ed al ribasso, ha
portato alle difficoltà con cui facciamo i conti oggi: una
sensibilità musicale piuttosto degradata e la grande fuga dei
giovani dai teatri. Purtroppo in Italia non ci rendiamo perfettamente
conto della grande ricchezza lasciataci in eredità e continuiamo a
calpestarla, senza alcun progetto mirato a produrne di nuova.
Pensiamo di potere vivere di rendita cullandoci sulle nostre
rassicuranti certezze e pensando di essere ancora ai tempi di
Puccini, Rossini o Bellini quando l’Italia brillava di luce
propria. Così però non facciamo passi avanti ma misuriamo solo
tutta la distanza che ci separa dal passato. Lo vediamo con la
considerazione riservata alla musica dalle istituzioni pubbliche e
dalla fatica che fanno le fondazioni musicali o gli stessi teatri,
anche i più grandi, ad andare avanti data la cronica penuria di
fondi. Servirebbe più coraggio ed allora la musica
potrebbe divenire uno dei tanti motivi a fondamento del rilancio
nazionale.
a.l.
Nel confronto con i tuoi colleghi stranieri quali atteggiamenti hai
rilevato nel loro rapporto con la musica che li distacca dai
musicisti italiani. Voglio dire, oltre ad una diversa e più ampia
fruizione della musica da parte del pubblico in grado forse di farli
comprendere meglio, esiste forse un gap di approccio mentale alla
carriera che per gli italiani che li lega, spesso, al mantenimento di
rendite di posizione o ad esiti che restano impastoiati nelle solite
prassi accademiche, nel blando “scolasticismo” a cui si riferiva
Massimo Mila?
l.m.
Torniamo al discorso dell’inizio. Le formazioni italiane sono
legate ai repertori solistici tanto da penalizzare l’approccio
orchestrale dei nostri giovani, anche talentuosi, i quali hanno seri
problemi a confrontarsi ed inserirsi in contesti internazionali. Le
carriere professionali sono bloccate dalla forsennata tendenza a
primeggiare e prevalere sugli altri che toglie ogni respiro alla
collaborazione tra artisti. Se non si esce da queste logiche mi
chiedo che speranze hanno oggi, ad esempio, i miei diplomati sempre
più disarmati di fronte alle magre prospettive con le quali debbono
fare i conti. Aprirci alle mentalità estere ci farebbe bene per
riuscire a dare un respiro meno corto e protezionistico alla musica
italiana, rendendola disponibile alle contaminazioni e le
sollecitazioni provenienti da Paesi cosiddetti virtuosi.
a.l.
Che tu non sia un professore di violino presso il Conservatorio
“Pergolesi” di Fermo non “convenzionale” lo si capisce dal
modo in cui ti apri agli altri, dal rapporto molto diretto e non
“istituzionalmente” freddo o mediato che hai con gli allievi, ma,
soprattutto, da una brillante vena sperimentale che ti porta a
confrontarti con repertori diversi da quelli dell’ambito
“classico”: musica leggera, jazz, etnica. Da quali esigenze, o
“urgenze”, muove tale avvertita sensibilità?
l.m.
Sul “non convenzionale” del quale ti ringrazio non saprei dire.
Sicuramente non mi considero un professore al di sopra della media ma
uno del gruppo, certo con un armamentario di conoscenze che mi deriva
da esperienze fatte, come dicevo, anche fuori dall’Italia. Il
discorso delle contaminazioni risale a tempi non sospetti. Ho avuto
esperienze sin dall’inizio della mia carriera con la musica
leggera, partecipando ad esempio più volte, come orchestrale, al
Festival di Sanremo oppure facendo parte della formazione dei
“Pavarotti and Friends”. Dai Musicisti di cultura pop noi
“accademici” abbiamo tanto da imparare: la preparazione armonica,
la duttilità, la velocità a cambiare o modificare un’esecuzione e
soprattutto l’estrema professionalità che talvolta noi abbiamo
perso. E l’umiltà, che insieme alla preparazione ci consentirebbe
di sapere riconoscere la bellezza in Musiche completamente diverse.
In fondo i grandissimi compositori classici sono riusciti a trarre
ispirazione dal repertorio tradizionale e folcloristico (da Mozart a
Beethoven fino a Mahler…) elevando la loro arte a vette sublimi. In
Italia è come se ci fossimo fermati alle acquisizioni del passato
lasciando agli altri la capacità di sperimentare e di assimilare
quello che di buono ci veniva, e tuttora ci viene, dalla modernità.
A differenza dei puristi, non disdegno le forme di musica popolare
perché alcune volte nascondono una tensione artistica ed anche una
capacità di raffinamento del suono molto più articolate ed
approfondite di alcuni performance svolte all’interno di gruppi
orchestrali. Lavorare con Paolo Conte per l’album “Elegia” mi è
risultato più impegnativo che non talvolta con orchestre blasonate
ma stanche e poco invogliate alla ricerca meticolosissima dei timbri
e delle sfumature, cosa che invece è stata chiesta al quartetto
d’archi che accompagnò le sue canzoni. Anche con Bocelli mi sono
trovato molto bene. Lo considero un grande musicista polivalente ed
umanamente straordinario, disponibile con tutti. La stessa attenzione
la dedico alla musica etnica come segno d’identità culturale dei
popoli. Ad esempio ho lavorato con i musicisti di etnia sinti in un
concerto per la giornata della memoria, al quale ricordo che eri
presente. Purtroppo il loro patrimonio di musiche è stato
saccheggiato e fatto proprio da altri musicisti - Brahms ad esempio
- nel più completo silenzio: una sorta di genocidio nel genocidio.
Per loro la trasmissione del sapere musicale avviene per via orale.
Dove noi ci applichiamo a leggere e solfeggiare loro invece ascoltano
e riproducono. In quel concerto a cui ho partecipato non hanno letto
una sola riga dello spartito. Non è nella loro cultura. E’ una
grande ricchezza ed un allenamento incredibile.
a.l.
Infine, per la domanda di congedo, ti chiedo di anticiparci, se
possibile, quali sono i tuoi prossimi progetti o sogni nel cassetto.
l.m.
Nel 1996 insieme ad alcuni storici amici abbiamo fondato l’Orchestra
da Camera delle Marche. Al suo interno ci sono talenti indiscussi e
indiscutibili, tutti Fermani, prime parti di importanti orchestre
italiane ed estere oltre a giovani, giovanissimi diplomati del nostro
conservatorio. L’orchestra ha avuto molti riconoscimenti, ha inciso
dischi distribuiti da case discografiche sia italiane che estere (
l’ultimo dalla casa Londinese Sheva con l’Oratorio di Natale di
Saint-Saens ). L’orchestra è stata invitata ad Atene per
rappresentare l’Italia e la musica italiana in occasione dei
festeggiamenti per le Olimpiadi. Il sogno, l’impegno dei prossimi
anni sarà convincere la città di Fermo e piano piano le Marche
tutte a credere in questa realtà, in questa piccola orchestra da
camera. Fare in modo che anche Fermo come già avvenuto con L’Aquila
(Solisti Aquilani), Padova (Solisti Veneti) Roma ( i gloriosi
“Musici”) possa avere come vanto culturale un’orchestra
stabile da esibire e ostentare nei momenti importanti. Abbiamo uno
tra i più bei teatri d’Italia, uno dei concorsi violinistici tra i
più importanti nel mondo, una tradizione centenaria tutta marchigiana con più di cento teatri… i nostri figli e i nostri
giovani non sanno chi sia Giuseppe Verdi
o Giacomo Puccini; conoscono però a memoria le formazioni
calcistiche di tutte le squadre del pianeta.
Alceo Lucidi
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