Torrido
questo pomeriggio di luglio africano al tramonto, ma Ippolito non
sembra accusare stress da afa, nel suo casual di scarpe da tennis
rétro, giacca e camicia (nera, quest’ultima: “il lutto per la
cultura”, scherza, ma non tanto). Si apre in leggerezza: alcuni
brani iniziali del suo “Ignoranti” strappano risate pur se amare,
e ci si vergogna un po’ per ortografia e grammatica saccheggiate da
candidati a concorsi pubblici (laureati) con vocazione al raddoppio
consonantico (ddu’ consonant is megl che uan?): così se la parola
burocrazia scatena angosce nell’immaginario dell’italiano medio,
burrocrazia evoca certo scenari più morbidi; così “spazi”
divenuto spazzi rivela forse nell’io profondo del candidato un
bisogno di spazio e… pulizia.
Casi
esilaranti e raccapriccianti, spie di ignoranza crassa e profonda,
democratica perché non risparmia i “dotti” cui si demanda la
stesura di prove concorsuali o di maturità, i quali possono
“scambiare” Quasimodo per Montale, o impostare tracce di prove
scritte su un’errata interpretazione di versi montaliani (Maturità
2008).
E’
quando dalla casistica pittoresca - malgrado tutto e a suo modo
“divertente” - si passa alle cifre della desolazione culturale
del Belpaese, che d’improvviso anche il caldo sembra
insopportabile.
Scenario
impietoso, a partire dagli impressionanti numeri della dispersione
scolastica: fenomeno in crescita, anche in aree non depresse, dai
riflessi pesantissimi sulla qualità della preparazione dell’intera
società italiana, e sul rafforzamento del potere di attrazione della
criminalità in aree particolarmente “sensibili”. Dati Ocse ci
dicono che competenze e capacità di apprendimento degli studenti
italiani sono tra le più basse d’Europa, che il nostro è un Paese
che non si prepara e non è dunque attrezzato per le sfide
internazionali, maglia nera in Europa per numero di laureati e di
immatricolati (in discesa inarrestabile questi ultimi dal 2003):
significativo il parallelismo tra questi dati e gli ultimi posti che
l’Italia occupa dal ’99 per crescita del Pil. E’ infatti
destinato alle retrovie un paese che non investe in istruzione,
formazione, ricerca e cultura: se gli anni del miracolo economico
coincisero con il boom della lettura e della scolarizzazione, oggi il
70% degli italiani non è in grado di comprendere e interpretare un
testo semplice. Analfabetismo di ritorno, o funzionale, che
attraversa ogni ceto sociale e si conferma statisticamente nel
bassissimo indice di letture, anche (soprattutto?) presso i ceti
dirigenti, dove spesso l’ignoranza è valore positivo, da esibire
con orgoglio (“…da forse vent’anni non leggo un romanzo”,
Silvio Berlusconi dixit, correva l’anno 2003).
Bassa
qualità dei ceti dirigenti, scelte politiche miopi e ignoranti,
mancanza di progettualità, tagli indiscriminati e sprechi producono
le macerie che tutti vediamo, ed effetti striscianti come lo
svilimento della considerazione sociale della classe docente,
tutt’uno con l’abbassamento della condizione economica di questa.
Non è un caso che Corea e Finlandia siano prime nelle classifiche
mondiali dei sistemi scolastici, e che queste si basino sul criterio
del riconoscimento sociale della classe docente e dell’importanza
del compito che è chiamata a svolgere.
“Ignoranti”
ci presenta la triste carta d’identità di un Paese che ha scelto
di arretrare. Ippolito non ci fornisce sorprese, ma documentate
conferme di uno sfascio che ci è davanti ogni giorno. Mentre
ascoltiamo di Scuola e Università, di carenze nella formazione
scientifica, di deficit genitoriali che si trasmettono ai figli, di
“neoanalfabetismo ai tempi di internet” (il 39% di italiani
frequenta internet meno di una volta l’anno, numerose imprese
considerano internet inutile, molte non hanno un proprio sito), ci
chiediamo però che ne è del ruolo della stampa, e perché l’acuto
Ippolito (giornalista) manchi, stasera, di soffermarsi sul ruolo
dell’informazione nel degrado complessivo. L’innegabile funzione
automaticamente educativa, quasi “scolastica”, che stampa e
informazione possono assolvere, specie su fasce sociali meno
acculturate e con scarsa frequentazione di libri, è oggi vanificata
dal mediocre livello del sapere trasmesso dalla stampa in generale,
dal conformismo dell’informazione (non certo solo di quella
televisiva ma anche di grandi giornali finto-progressisti), dalla
bassissima qualità di scrittura di molta stampa, soprattutto locale
ma non solo.
Eventuali
ristampe dell’interessante lavoro di Ippolito potrebbero
arricchirsi, ad esempio, di un capitolo dedicato alle locandine della
stampa locale campeggianti quotidianamente davanti alle edicole:
campionario di trovate involontariamente surreali, oltre che di prosa
sgarrupata. Ignoranza allo stato puro, sventolata, comprata, pagata,
imitata, inseguita, assorbita.
Piacerebbe,
ma è proprio difficile condividere la speranza con cui Roberto
Ippolito si congeda dal suo pubblico: “Forse si può farcela, se ci
sono le volontà, le energie, e perchè non può andare peggio di
così”.
No
invece, il timore che possa andare ancor peggio è forte, come la
sensazione che nelle attuali condizioni il buonismo ottimista sia
solo esercizio retorico.
Sara
Di Giuseppe
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