Soddisfatti
come di un grattaevinci fortunato, per le sedie conquistate nella
piazza già gremita, nell’attesa - lunghetta - osserviamo il popolo
del festival, gli improbabili cappelli fai-da-te, i frammenti di
conversazioni, i telefonici segnali di fumo da un capo all’altro,
gli sconsolati non-c’è-un-posto-manco-a-pagarlo; ascoltiamo la
vivace signora della fila dietro leggere all’amica l’intero
rosario degli aforismi sull’amore
contenuti in un libretto edito per il festival: scrupolosa, non ne tralascia nessuno, hai visto mai, e quando arriva al dantesco infernal-cortese “amor-ch’a-nullo-amato-amar-perdona” si lancia in una vertigine di spericolate interpretazioni che manderebbero in visibilio quelli della Gialappa’s. L'amica non reagisce, se è svenuta non lo sapremo mai, perché intanto arriva Galimberti.
contenuti in un libretto edito per il festival: scrupolosa, non ne tralascia nessuno, hai visto mai, e quando arriva al dantesco infernal-cortese “amor-ch’a-nullo-amato-amar-perdona” si lancia in una vertigine di spericolate interpretazioni che manderebbero in visibilio quelli della Gialappa’s. L'amica non reagisce, se è svenuta non lo sapremo mai, perché intanto arriva Galimberti.
Attende
con filosofica pazienza, il filosofo, le presentazioni di rito e la
menzione del Rotary-sponsor che suona fastidiosa come un
ingrediente fuori posto dentro una buona ricetta; poi parla pacato,
la guancia appoggiata alla mano, come se non una Piazza Grande
strapiena di pubblico seduto e in piedi fin sotto le logge avesse
davanti ma un affettuoso simposio di pochi amici in devoto ascolto.
Condizione dell’amore è l’entusiasmo - esordisce -
nell’etimo greco [en] dentro e [theos] dio: amore è possessione, è
avere “il dio dentro”. Lo capiamo da subito, che nei prossimi
sessanta minuti dovremo reggerci forte, perché Galimberti ci
rivolterà l’anima come un calzino e, dopo, qualche nostra certezza
avrà compiuto una rotazione completa intorno al proprio asse…
Per
parlare di Eros - ci dice - dobbiamo dis-locarci dalla
razionalità, trovarci in uno stato di atopia [a-topos, fuori
luogo] rispetto alla ragione, perché la condizione dell’amore è
quella del “dio dentro”. E’ il Platone del Simposio
a parlarci di follia contrapponendola alla ragione: questa si attiene
al principio di identità e di non contraddizione ed è prerogativa
dell’uomo; quella - la follia - è creatrice, e poeti e artisti
sono in quella zona in cui in cui la ragione se ne lascia
contaminare. E’ anche la condizione del bambino (egli non segue la
ragione, deve essere “sorvegliato”); ed è la condizione del
sogno: nell’attività onirica agisce il teatro della follia che
destruttura tempo e spazio, così che nel sogno mi trovo
contemporaneamente in più luoghi, in più tempi, sono io e altro da
me, a riprova che non la razionalità coscienziale è la verità del
nostro profondo, ma la follia.
La
follia, “più bella della saggezza d´origine umana” abita gli
dei; l’uomo, che dagli dei proviene, da essi si distacca attraverso
la ragione. Così, i sacrifici offerti agli dei sono volti non a
chiedere grazie, ma a tener lontana dagli uomini la follia divina:
nelle Baccanti euripidee il Coro supplica di
allontanare il dio, poiché con Dioniso entrato in città sono
esplosi la follia e il disordine; in Omero, Agamennone
dice ad Achille non io ti ho sottratto Briseide ma le
divine Atai (quindi la violenza e la dissennatezza). Se ancora
nell’800 gli psichiatri dimettevano i loro pazienti annotando nel
referto la sigla “d.c.” (“deo concedente”: se
dio - cioè la follia - lo concede) è perché sulla follia del dio
l’uomo non ha potere. Essa non abita solo il dio dei pagani ma
anche il dio delle religioni monoteiste occidentali. Jahvè
che ordina ad Abramo di uccidere il figlio Isacco ne è
l’emblema: ci mostra che il dio è al di là di ogni ragione e -
come afferma Kierkegaard - chiedergli di rispettare le leggi
di natura è impossibile.
Platone
inscrive l’amore nella follia: quella amorosa occupa il più alto
dei 4 stadi in cui essa si manifesta (profetica, iniziatica, poetica,
e, appunto, d’amore). Eros è dunque il tramite fra l’uomo
e il dio, la sua è “una natura interiormente sconvolgente cui
soccombono anche il volere e il sapere razionalistici” (G.Krüger).
Per questo il linguaggio razionale non è adeguato a esprimerlo, ciò
spiega il parlare enigmatico e buio degli amanti. Chi ama è abitato
dal dio e parla il linguaggio della follia: il qualcuno che amiamo -
perché amiamo quel particolare qualcuno, non tutti - è a sua volta
colui/colei che ha catturato questa parte divina che è in noi (è
infatti dalla semantica della follia - “sono pazzo/a di te”
, e altro… - che il linguaggio corrente e popolare attinge le sue
espressioni quando cerca di esprimere l’amore).
Amore
è maieutico, generativo poiché ogni stato d’amore è immersione
nella propria follia e la riemersione da essa è una nuova nascita.
Nell’eros si realizza la ricongiunzione di ciò che è stato
diviso: siamo gli esseri originariamente uniti in un unicum
indistinto, che Zeus - timoroso della potenza di esseri
siffatti - ha tagliato in due parti, “rendendoli più deboli e
infelici”, ricuciti da Apollo al livello dell’ombelico, e
da allora ognuna delle due parti cerca affannosamente l’altra. Ecco
perché Amore è segnato dalla mancanza e dal desiderio: chi
ama cerca ciò di cui è privo, e nella dottrina della sapiente
Diotima espressa attraverso le parole di Socrate nel
Simposio, Eros ha le vesti e le sembianze del mendìco
perché l’amore è ricerca di ciò che non si possiede, è slancio
verso qualcosa di altro da sé. Amore è “desiderio di tornare
Uno”, e l’unione corporea è memoria dell’antica unità e
insieme tentativo di ricostruirla, destinato alla sconfitta perché
alla fine c’è sempre la separazione.
Signori
si scende. Con Galimberti abbiamo attraversato in un’ora
divino e umano, ragione e follia; come la statua di Glauco
dall’acqua, riemergiamo con qualche incrostazione in meno,
consapevoli che nell’eterna ricerca della completezza smarrita, la
scintilla divina è quella che ci salva: si chiama Amore o, se
si preferisce, Follia.
In
chiusura, la domanda lanciata dal pubblico, prevedibile e inesorabile
come l’ora di pranzo, pone il tema del femminicidio. Le donne sono
a loro agio nella follia, spiegherà il filosofo: ciò disorienta il
maschio, radicato nella cultura del possesso, occorre partire dallo
sradicamento di questa. Le donne ringraziano.
Sara Di Giuseppe
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