E’
buona cosa che "Sacro GRA" abbia vinto il Leone d'Oro al
Festival di Venezia diventando così il primo documentario a vincere
il primo premio in 70 anni di storia della Mostra, perché,
francamente, è l'unico motivo per cui sono andata a vedere questo
film (?) e tu, appassionato cinefilo, stai leggendo questa
recensione.
All’annuncio
del nome del vincitore, qualche giorno fa, mi era sembrato fantastico
che un documentario avesse vinto il Leone, ma ai titoli di coda sono
rimasta allibita e indignata che un film insignificante come questo
sia riuscito nell’impresa che poteva diventare storica per la
storia del cinema.
Le
dichiarazioni di Gianfranco Rosi, il regista, e le parole della
critica compiacente parlano di un documentario su questa realtà
circoscritta alla Capitale, qualcosa di simile ad un anello di
Saturno, il GRA, non solo come una strada da percorrere ma una sorta
di entità astratta, un non luogo dell’anima, un nastro che collega
realtà tra loro lontane e vicine al tempo stesso. Perché Roma può
essere un mostro tentacolare che divide e abbandona, ma il Raccordo
Anulare stringe tutti in un abbraccio.
Lasciatemi
esprimere qualche dubbio.
Per
chi non abita a Roma è incomprensibile il motivo per cui un regista
possa impiegare tre anni della propria vita nel tentativo di trovare
materiale utile per un documentario sul Grande Raccordo Anulare, il
percorso stradale che circonda Roma, e che era già diventato
protagonista in alcune esibizioni parodistiche di Corrado Guzzanti.
Il
Grande Raccordo Anulare di Roma, completato nel 1970, è un infernale
cerchio di 68 chilometri con 33 uscite, quasi a richiamare la forma
dantesca della Divina Commedia, ma Rosi non è particolarmente
interessato alla strada, concentrandosi, invece, sulle persone
che vivono la loro vita appena fuori, o occasionalmente si trovano in
essa. Seguendo le orme già tracciate del grande documentarista
americano Frederick Wiseman, alcuni dei suoi soggetti appaiono per una
sola breve scena, mentre, e sono certamente una vasta selezione,
alcuni si ripetono durante tutta la pellicola: un aristocratico che
mette a disposizione la sua casa di famiglia per riprese
cinematografiche, paramedici, pescatori di anguille sul Tevere,
alcune prostitute transessuali, un uomo che cerca di fermare con
metodi personali e poco ortodossi gli insetti che stanno distruggendo
le palme, e infine una piccola famiglia composta da una figlia che
non stacca gli occhi dal pc e un padre fisso alla finestra, a
commentare il mondo circostante.
Le
scene - a mia parere il termine migliore è vignette - sono un
miscuglio di storie che non hanno nessuna relazione tra loro se non
il fatto che il regista dichiara (e noi siamo costretti a fidarci)
essere intorno al GRA e lo spettatore è sempre in continua attesa
che accada qualcosa di meglio. Alcuni racconti, come quelli che
coinvolgono il “botanico fai da te”, sono aridi e verrebbe voglia
di spingere il tasto skip del telecomando (avanti veloce), mentre
altri sono inutilmente divertenti, altri inutili, banali o
eccessivamente strazianti.
I
lunghi 90 minuti della proiezione risentono di una forte aurea da
esercizio stilistico fine a se stesso: ad emergere è infatti la
compiacenza stessa del regista che non scende mai in profondità,
schiacciando ed annullando i personaggi messi in campo e mettendo in
scena una banale docu-soap.
Allora
il Raccordo Anulare diviene solo un nome ripetuto tra le tante parole
proferite, un mero pretesto per parlare d’altro. Peccato, però,
che questo “altro” molto spesso sfugga allo spettatore, in uno
spettacolo discontinuo e didascalico, dove a venir meno è quella
partecipazione sociale e culturale, che non deve mancare in un
documentario.
Sicuramente
molti di voi alcuni non si troveranno d'accordo con me, ma non
preoccupatevi siete in buona compagnia e tra i più autorevoli
trovate Bernardo Bertolucci e il resto della giuria di Venezia.
Ma a
me, questa leggera, insignificante pellicola mi è sembrata la
zanzara di Esopo che ha punzecchiato il Leone d'Oro.
Antonella
Roncarolo
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