Chiude
così la “Lectio Pop” sull’umorismo, Davide Grossi, con le parole di Totò in una
lontana intervista: “Il comico è la lotta tra il bene e il male, e alla fine
vince la guardia notturna”.
Fulminante
condensato di filosofia della comicità che riconduce questa alla sua unica
possibile essenza: l’insensatezza del tutto che nel momento in cui è colta
diviene oggetto di riso.
Partono da lontano, Massimo Donà e Davide Grossi, nel ragionare di comicità e umorismo, in questa Lectio Pop incastonata nella poderosa cornice del Castello della Rancia. Stuzzicati dalla brava, acuta Lucrezia Ercoli ad un ping pong filosofico che ci porgerà interpretazioni alte, forse inattese, del comico e del riso, non si accontentano di riandare a Leopardi e Bergson, a Nietzsche e Pirandello, ma giungono a ritroso fino ad Apuleio, ad Aristofane, al Democrito ed Eraclito dei Dialoghi lucianei, agli Inni omerici. Attualizzano classicità e mito rintracciandovi le radici del comico, e di questo storicizzano le forme moderne collegando all’antico perfino lo sberleffo di Totò e Peppino.
Partono da lontano, Massimo Donà e Davide Grossi, nel ragionare di comicità e umorismo, in questa Lectio Pop incastonata nella poderosa cornice del Castello della Rancia. Stuzzicati dalla brava, acuta Lucrezia Ercoli ad un ping pong filosofico che ci porgerà interpretazioni alte, forse inattese, del comico e del riso, non si accontentano di riandare a Leopardi e Bergson, a Nietzsche e Pirandello, ma giungono a ritroso fino ad Apuleio, ad Aristofane, al Democrito ed Eraclito dei Dialoghi lucianei, agli Inni omerici. Attualizzano classicità e mito rintracciandovi le radici del comico, e di questo storicizzano le forme moderne collegando all’antico perfino lo sberleffo di Totò e Peppino.
E’
leopardiano il riso “alto” che si affaccia per primo nel dialogo tra i due
filosofi: il comico è ciò che scaturisce dalla mancanza di senso del reale,
esso è dunque prerogativa di chi comprende che la stessa domanda di senso è
insensata e pertanto ride di sé; di chi vive il polemos, il gioco polemico tra
uomo e natura con la chiara coscienza che questa non risponde alle sue richieste.
Nell’Elogio degli uccelli (Operette Morali) il riso umano, a differenza del
canto degli uccelli che nasce dall’armonia con la natura, ha radice nella
disarmonia: l’uomo, “la creatura più consapevole dei meccanismi della ragione e
della infelicità della vita, racchiude in sé la possibilità di un comportamento
irrazionale come il riso” (in Fillide, n.6, aprile 2011). Ecco allora che il
riso “alto” della filosofia leopardiana riconduce a quello democriteo: in uno
dei Dialoghi di Luciano è Democrito che, a differenza del piangente Eraclito,
ride perché sa di dover rinunciare alla pretesa di senso del reale; egli è il
filosofo che ride della vanità delle vicende terrene (“Democrito ride di tutto,
trova in tutte le cose, piccole e grandi, motivi di ilarità, ritenendo che la
vita intera non è nulla!” scrivono i cittadini di Abdera in una preoccupata
lettera ad Ippocrate, in un’altra invenzione di anonimo autore). Se il riso nasce dalla disarmonia e dal
contrasto, esso può essere “alto” e filosofico ma anche stemperarsi nel riso
comune e nella comicità: Bergson esemplifica nella persona che cade goffamente,
suscitando il riso, quel corto circuito tra la naturale mutevolezza della vita
(e dell’essere umano) e l’accidentale contrarsi, rattrappirsi di questa in una
rigidità meccanica e abnorme, da cui scaturisce la risata (Grossi scherza
malizioso sulla propria poderosa fisicità, ipotizzando il crollo della poltrona
che lo contiene e che mandandolo gambe all’aria susciterebbe ilarità. A Donà
successe davvero, dice, ah ah…). Perché il comico si esalta di qualcosa che è
antinaturale, di qualcosa che rende “rigido” e meccanico ciò che è naturale:
parole, atteggiamenti, gesti, che relegano qualcuno a “marionetta di se
stesso”. Il comico sottrae lo spirito alla materia, rendendola automatica;
calzante l’esempio di Totò che interpreta le rigide movenze del burattino
Pinocchio, in cui ciò che è umano diventa antiumano. L'umorismo che nasce dal
contrasto è anche nel pirandelliano “sentimento del contrario”: il riso nasce
dall’avvertimento del contrasto tra ciò che non è naturalmente fisso e
l’innaturale fissità della maschera, o del burattino.
C’è
dunque una “materialità” nell’umorismo: non a caso la parola rimanda ad “umori”
e alla teoria ippocratica dei flussi corporali il cui equilibrio determina il
carattere. L’umorismo fa leva su questa materialità, il suo oggetto è ciò che
ci proviene dal ventre, dal basso e non dipende dalla nostra volontà. E’ questa
la materia del comico, ed è ciò che rende comico l’uomo. Ecco dunque lo
sberleffo, la pernacchia, il potere liberatorio della risata: esso ci porta
alla “prima risata del’Occidente”, a Demetra oppressa dal dolore per Persefone
rapita, che ride davanti alla gestualità oscena della vecchia brutta e laida.
La
verità “fa ridere” (“Nessuna verità che non faccia ridere è una verità”,
secondo Nietzsche”), ma non può essere detta ridendo: per questo non si può
essere comici e ridere, e il clown, che fa ridere, ha una lacrima dipinta sulla
faccia. La verità può solo essere seria e “alta” (la lotta tra il bene e il
male di Totò) e ridere di se stessa (e alla fine vince la guardia giurata).
Mmmm…
chissà se ho capito bene… Intanto rido.
Sara
Di Giuseppe
Nessun commento:
Posta un commento