Chissà
perché. Appena sono entrati, ho pensato subito a uno di quegli
entusiasmanti incontri di tennis degli anni ’70 sul rosso centrale
del Roland Garros. Anche se uno solo dei due potrebbe fare il
tennista professionista, e le bacchette non erano racchette (che ai
tempi erano ancora di legno), e non sono volate palle ma, quasi,
piatti… Ma poi, loro non hanno fatto partita. E’ stata una
gustosa, lunghissima e crescente esibizione di abilità e
funambolismi, non solo sonori.
Come quando, pure a San Benedetto, su un perfetto campo di legno adagiato sulla terra rossa del Circolo Tennis Maggioni, arrivarono un’estate di quegli anni i magici Harlem Globetrotters. Un incanto collettivo quelle finte tiratissime partite, con cesti impossibili, guizzi volanti, scatti felini, acrobatiche aeree geometrie, ma anche incredibile naturalezza. A quei giganti neri riusciva tutto facile e automatico, così ci sembrava.
Come quando, pure a San Benedetto, su un perfetto campo di legno adagiato sulla terra rossa del Circolo Tennis Maggioni, arrivarono un’estate di quegli anni i magici Harlem Globetrotters. Un incanto collettivo quelle finte tiratissime partite, con cesti impossibili, guizzi volanti, scatti felini, acrobatiche aeree geometrie, ma anche incredibile naturalezza. A quei giganti neri riusciva tutto facile e automatico, così ci sembrava.
Di fronte a un pubblico di batteristi in erba e non, della Scuola di musica Giocondi, Meyer e Bandini
ci sono apparsi così: due artisti-atleti “giganti” in tournée
che, davvero meglio che in un concerto, ci han fatto esplorare il
pianeta dello strumento-batteria partendo da un semplice piatto di
bronzo dorato, estraendone suoni elementari e complessi, inaspettati,
diversissimi, che mai avresti pensato, e sorrisi, sì sorrisi.
Figurarsi
quando si sono allargati ai tamburi, alle casse, ai rullanti. Assoli
pensosi, o uno “contro” l’altro, botta e risposta, battuta e
volée, come a tennis. Oppure insieme, affiancati, in accelerazioni e
slalom inventati, quasi terzo tempo e sospensione, come nel basket.
Ma da seduti.
E’
stato soprattutto cuore e passione, oltre che tecnica. Sensibilità,
dolcezza, in alcuni momenti quasi silenzio. Si può essere poeti, con
la batteria. Con le “spazzole” puoi imitare il vento e l’acqua,
far sentire carezze, evocare morbidi velluti, fruscianti sete,
cachemire… Quando elencano i nomi dei leggendari batteristi (quasi
tutti neri e americani) a cui si sono ispirati e che hanno studiato e
“copiato”, mi par di sentire la “musica” della formazione
degli Harlem. Meyer e Bandini: il nipote e lo zio, alla Paolo Conte.
Due amici maestri, inconfondibili in mezzo al via-vai…
Ellade
perfino un po’ me lo ricordo, circa diciottenne come me,
“accampato” al Kon Tiki.
Anche
Giocondi già c’era.
Pier
Giorgio Camaioni
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