Quello esposto è il cinema
italiano “nobile”, le pellicole con la griffe di Federico
Fellini, Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, Alberto Sordi e Carlo Lizzani.
Cinema indimenticabile, il nostro, che prima di Checco Zalone e
Alessandro Siani, aveva sempre qualcosa da dire e immagini
incancellabili da mostrare. Ma così è la vita, e si trova sempre
qualche critico pronto a certificare che le scemenze sono il futuro.
Il vernissage di Giuseppe Di Caro (uno dei reporter ufficiali del
David di Donatello), nei locali della meritoria associazione
culturale “Artes & Co” di San Benedetto del Tronto, è
coerente con quelli “romani” degli anni Sessanta e Settanta:
presentazione dell'evento all'ingresso, musica dal vivo che parte al
taglio simbolico e virtuale del nastro, primi “oh” alla visione
delle opere esposte, cameriere che gira con un elegante vassoio al
posto del solito, scontato e poco dignitoso (considerati gli
assalti), tavolo del buffet.
E se la colonna sonora d'ingresso è
quella di “Amarcord”, non ci vuole molto per capire chi, e come,
si sta festeggiando. Pur essendo stata scritta nel 1973, la musica di
Nino Rota resta quel capolavoro che il tempo, come per il buon vino,
colora di magico. E prima ancora di vedere le fotografie della mostra
di Di Caro, davanti agli occhi ci scorrono le immagini di Titta e
della Gradisca, della neve che cade su Rimini, di “Voglio una
donna”, l'urlo di zio Teo-Ciccio Ingrassia sull'albero della gita
domenicale della famiglia di Aurelio. Ad “Amarcord”, Peppe Di
Caro dedica anche un angolo della mostra, con tanto di sfere colorate
coi volti dei personaggi che spiccano in una dimensione 3D, e una
curiosa lettera di Fellini che chiede a Rinaldo Geleng di pensare
alla locandina del film, disegnata poi dall'americano John Alcorn.
Tutta la mostra è giocata sul filo del ricordo, di scatti figli di
un'epoca paragonabile all'età dell'oro della nostra cinematografia,
con i personaggi che ne hanno fatto l'orgoglio e che, come avrebbe detto un
giorno Dino Risi: “Sono morti tutti, Marcello, Federico, Giuseppe,
Ugo, Vittorio, non ho più nessuno con cui parlare”. Il merito
della mostra di Di Caro è quello di tenere acceso il “fuoco”
della grandezza e di ricordarci che Federico Fellini è oggi più
amato dagli americani che dagli italiani. Il 31 ottobre saranno venti
anni da quando Fellini è morto inseguendo Giulietta. Non sono
previste grandi celebrazioni né riti di Stato né corone d'alloro al
monumento del Milite Ignoto, anche se il regista romagnolo un
“milite” lo è stato sicuramente ma non ignoto. Si potrebbe dire
che vale, per il cinema italiano, l'epitaffio che Dino Risi avrebbe
voluto per la sua tomba: “Nato a Milano, morto a Waterloo”.
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