“Ho
dentro il mio paese”, annotava Pericle Fazzini e di certo “le
piante, il vento, gli ulivi, il mare” non lo hanno “lasciato”.
Il suo paese sì, forse Grottammare non l’ha mai accolto davvero,
neanche da vivo.
Dev’essere
così, se il suo “Ragazzo con i gabbiani” posato sullo scoglio in
riva al mare suscitò, per quel sedere nudo, più d’un mugugno tra
le intemerate schiere del bacchettonismo locale; se l’incuria di
oggi
lascia spenti i due faretti che a sera dovrebbero fargli
compagnia (mentre illuminatissima è la brutta installazione che più
avanti magniloquente celebra la casualità geografica dell’essere
attraversati dal 43°parallelo, quasi fosse per meriti nostri); se
nella centralissima piazzetta a lui intitolata, alla sua
“Metamorfosi” (bozzetto di un monumento a Kennnedy) appendono -
quasi - mutande e merce bancarellara nel mercato settimanale, e in
estate la soffocano coi turpi concerti di musicaccia fracassona; se
l’unico - bellissimo - Museo interamente dedicato alla sua opera
l’ha fatto Assisi… Se il Convegno che Grottammare gli dedicherà
a dicembre, dovrà essere risparmioso. Se San Benedetto, due passi da
qui, ne ha “celebrato” il Centenario con un’opera esposta in
piazza Giorgini per qualche ora appena, e rimossa poi per far posto
al cafoname di auto da matrimonio, apripista al mercatone espanso di
un “Antico e le Palme” che vende aspirapolveri Folletto accanto a
cassapanche simil-antico.
Forse
per questo, nel bell’Happy hour culturale di sabato 5
ottobre dedicato all’artista, alla Galleria Opus i grottammaresi
nativi si contavano sulle dita di una mano, e accanto al sindaco di
oggi non c’erano quelli di ieri che finsero di occuparsi di cultura
finché fu buona a portar voti. E neppure c’erano giovani, nè
studenti… Così quel Fazzini che ieri ci parlava attraverso il
visionario Dimarti e il travolgente Di Bonaventura (non-grottammaresi
anche loro) ce lo siamo goduti in pochi, e quasi “stranieri”.
Versificare
potente e aspro, “difficile”, quello della raccolta “A dispetto
del tempo” (da Dimarti dedicata “A Pericle Fazzini dopo la mostra
“Il luogo dei natali” del 2003) che dai frammenti di annotazioni
del “maniaco fabbricante di forme” s’innalza e s’inabissa e
scava dentro il travaglio creativo dell’artista, fino all’opera
più grande, quella "Resurrezione" nella quale “siccare
adverto vigoria” e che lo segnerà definitivamente nel corpo.
Vincenzo
Di Bonaventura voce recitante, maneggia poderosamente la lingua
poetica di Dimarti quando si fa antichissima e dotta, e quando
improvvisamente torna sperimentale e modernissima, a marcare la
distanza dal superficiale chiacchiericcio, dal tumulto “su omne
omato squittire”; perché il ricordo, dice il poeta, pur “necesso”,
è “acqua che s’impipa tra le dita” se ridotto a vuota forma e
pretesto per piazzare “gracule cibarie a sciagurare esorcismi
indulgenziali”.
Aveva
“l’Adriatico sulle spalle”, Pericle Fazzini; conosceva
l’armonia del vento “che rasa con violenza e con dolcezza il
mare”; per lui “anche un mucchio di sassi ha il suo senso
armonico”. Oggi, che i sassi non ci sono più, coperti dalle sabbie
nere; che non ci sono più le canne da lui amate; che in luogo di
sassi canne e tamerici antiche (“il ciottame scalzo le straripe
sradiche tesine radici l’erboso fastidiato canneto”) e abbiamo
lungomari di cemento e di finti giardini, ed erigendi muretti e
cordoli per far la città più bella e più grande che pria, chissà
se oggi l’avrebbe ancora “dentro”, questo suo paese bulimico e
arreso al brutto. Per me, se tornasse, se ne scapperebbe con un
barcone… magari per “toccare l’infinito, poi morire”.
Sara
Di Giuseppe
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