E’ vero.
Il film è piacevole e si esce dalla
sala soddisfatti di aver trascorso due ore in compagnia di ottimi
professionisti del cinema e di una bella storia. Ma basta così poco
perché un film sia definito una buona opera artistica? Se sei un fan
della Formula Uno o se, come me, hai vissuto quegli eventi sportivi
incollata per ore al teleschermo a fianco di tuo padre e tuo
fratello, il film non può che appassionarti ed emozionarti.
Ma se,
oltre a vivere di ricordi sei anche un’irriducibile cinefila, sono
sempre io, il film suona a vuoto, con la profondità di una
pozzanghera, una delle tante che trovò in pista Niki Lauda durante
le prove del suo rientro a Monza nel 1976.
La storia, scritta da Peter Morgan, a oggi uno dei più acclamati sceneggiatori, si muove dalla griglia di
partenza della gara di Monza, sei settimane dopo l’incidente di
Lauda al Nurburing, quando il pilota rischiò di morire nella sua
auto, riportando gravi ustioni al volto.
Il film inizia con la voce di Lauda
fuori campo che, in linea con il suo carattere calcolatore, recita
alcune statistiche: “Venticinque piloti sono ai posti di partenza
ogni stagione e ogni anno due di noi muore. Che tipo di persona può
fare questo per un posto di lavoro?” Morgan racconta una dicotomia
interessante nella rivalità tra il playboy britannico James Hunt e
l'austriaco uomo-macchina Niki Lauda. Hunt, interpretato dal
bellissimo attore australiano Chris Hemsworth (Thor, The Avengers) è
tutto ego, un dio biondo che ama lo champagne, le donne e soprattutto
il rischio: un banale James Bond in tuta rossa, con uno snob accento
britannico. Lauda, interpretato dall'attore tedesco
Daniel Brühl, è completamente l'opposto: piccolo, brutto, sobrio,
arrogante sulle sue capacità. Lauda pensa a tutto mentre Hunt non
pensa a niente, tranne che alla sua prossima conquista femminile, in
qualsiasi situazione, l’infermiera che lo medica dopo una rissa o,
con il ginocchio rotto, un’assistente di volo. Lauda è tutto testa, Hunt è tutto
cuore (o forse qualche altro organo), e il film continua a battere
sul tema degli opposti, non certo un’idea originale. Ma la grande
sorpresa è che Ron Howard, così tardi nella sua carriera, abbia
impiegato tanta energia e talento per un cartone animato sulla
mascolinità. Ma forse non è un caso.
Il film è frutto di un calcolo per
arrivare ad un pubblico giovane, che non ha vissuto quegli anni,
attraverso l’adozione di una fotografia dai colori bruniti ed
irreali, tipici di serie televisive di successo come CSI o di stupidi
film come “300”. Ron Howard, inoltre, caratterizza
superficialmente i personaggi secondari del film, in modo che si
pensi che la gente che vive attorno alle corse automobilistiche sia
vacua e poco intelligente.
Esiste una fiera tradizione di film di
corse automobilistiche, in particolare negli anni ‘60 e '70,
“Vincere” con Paul Newman, “Bobby Deerfield” con Al Pacino,
anche “Le Mans” con Steve McQueen, dove la morte è la
protagonista di queste storie. Questo è vero anche per “Rush”,
ma in tempi e modi diversi. La morte ha, infatti, un posto secondario
in griglia di partenza.
La scarica di adrenalina è diventata
la protagonista principale dei film d’azione moderni, ma non c’è
bisogno di una macchina veloce per mostrarla. Può essere benissimo
un camion, un “Trasformer” o un film d'animazione con gli
aeroplani per bambini. Howard ha affrontato il dilemma
inevitabile: come si fa a raggiungere un pubblico giovane dato che
fin da bambini hanno già visto e provato tutto? La sua risposta è
stata quella di trovare una storia semplice e forte, comprensibile a
tutti: due uomini, un premio, una rivalità per la morte.
E’ vero che Lauda e Hunt erano feroci
rivali in pista e non particolarmente amici fuori di essa, ma questo
vale per quasi tutti i piloti di F1. Allora perché la scelta è
caduta su questi due in particolare?
La risposta è che il loro braccio di
ferro diventò epico nel 1976, quando Lauda ebbe il terribile
incidente, dando ad Hunt la possibilità di vincere il suo primo ed
unico Campionato del Mondo.
Mi aspettavo di più da un film diretto
da Howard con la sceneggiatura di Peter Morgan, che ha scritto “The
Queen” e “The Special Relationship”. Non dimentichiamo che
l'ultima volta che questi due hanno lavorato insieme hanno realizzato
lo splendido “Frost / Nixon”.
Questa volta si tratta di una
battaglia, bandiera a scacchi o morte, tra una “faccia da topo”
capace non solo di guidare, ma di modificare una macchina e un
inglese beone che sa solo spingere sull’accelleratore. Dopo
l'incidente, la storia diventa simile alla favola “La Bella e la
Bestia”, ma è solo Lauda che ne emerge con vero coraggio e
carattere. In questa caratterizzazione Hunt è sgradevole, maleducato
e insulso, appena degno di considerazione, uno sbruffone dai lunghi
capelli biondi.
Mentre il film va avanti, Lauda
dimostra invece di essere un gigante rispetto al rivale, in pista e
fuori, eppure Howard continua fino alla fine la storia della loro
rivalità. Anche nei manifesti promozionali del film, il viso di
Lauda è in secondo piano e in altre versioni c’è solo la bella
faccia dell’attore australiano. La storia del recupero di Niki
Lauda dopo l’incidente è straordinaria, (non dimentichiamo che si
fece costruire un casco che non gli facesse sanguinare le ferite
ancora fresche), un esempio di coraggio e una grande pagina della
storia dello sport. E Ron Howard lo sa.
La rivalità non è molto più che un
episodio, ma diventa l'evento principale del film solo per finalità
di marketing. Si tratta di un'occasione mancata, guidata dal cinismo
di un grande regista.
Antonella Roncarolo
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