Recarsi al cinema il 4 ottobre del
2013, in Italia, per vedere Una fragile armonia (A
late quartet) di Yaron Zilberman, USA 2013, vuol dire
essere al posto appropriato nel momento appropriato. Cinema pieno
zeppo alle 18.00. Giorno di lutto nazionale, del patrono Francesco,
del lauro
gigantesco che muore per sempre per opera del suo "padrone"
nel giardino di fronte a casa.
La musica di Ludwig van Beethoven
del Quartetto per archi n. 14, lo spartito in sette movimenti,
non prevede pause. Eppure le pause le prevede la vita, del presente,
come dice T.S. Eliot "time past and time future what
might have been and what has been point to one end, which is always
present".
Le scelte di un gruppo compatto da
venticinque anni in nome della musica, fa i conti con la caducità
umana, gli archetti suonati all'unisono per 3.000 concerti, benché
di crine della miglior qualità, nulla possono al cospetto della
fragilità del morbo di Parkinson, della fine annunciata di un
tempo che non tornerà, ma che è ancora c'è, diversamente abile. E
il regista si è chiesto chi davvero può essere in grado di
ricomporre la fragilità umana. E la risposta non sta nella virtù
del mezzo. Sono gli estremi, il vecchio e la giovane, ovvero il
meglio del passato e il coraggioso futuro a stringersi una mano
complice nel buio di una sala da concerti, per permettere al presente
degli uomini quasi maturi, di continuare a superare, a trovare la
fragile armonia dell'amore di coppia scambiato eppur mai veramente
amato, dell'ubbidienza al ruolo di chi deve sostare al secondo posto
vita natural durante, della superbia di chi non cede il podio di
primo violino, della presa d'atto che l'amore per la musica ha
sacrificato il ruolo materno, paterno e quello filiale a un posto in
ultima fila.
Il vecchio e la giovane, maestro e
allieva non possono essere e non saranno fuga, bensì collante alla
disgregazione che tutto distruggerebbe e nulla salverebbe. Sono il
significato dei suoni immortali.
Michaela Menestrina
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