Anas War Experience |
Una
pittura dai toni brillanti e dal contenuto colmo di amaro sarcasmo,
pervaso da un lancinante ghigno di derisione. L’artista gioca con
le nostre identità, con i nostri miti consumistici, presentando
un’umanità frammentata, isolata, agghiacciante, ma in fondo
grottesca, ridicola, che ha perso il senso del suo esistere ed è
incapace di dire perché sia lì e cosa realmente ci faccia seduta a
tavoli ingombri di cose quotidiane e macabre, sporche di sangue o di
rifiuti. Bottiglioni, coltelli, mannaie, lattine di bibite killer
e ritagli di foto porno, banconote e carte da gioco, oggetti quasi
messi all’incanto sui tavoli dell’attualità, insieme con le
persone vendute anch’esse inconsapevolmente all’asta
dell’esistenza.
Una realtà rituale, simbolicamente religiosa,
di una religione fatta di segni onnipresenti, ma soltanto
convenzionali e dei quali le figure, ieraticamente ferme, non
capiscono né avvertono più bene il significato, nella congerie
delle altre icone presenti. È una ritualità costruita su luoghi
comuni sgargianti come cravatte e abiti griffati, vuota ed effimera
come un fumetto non scritto, che grida più di mille aggettivi una
disumanizzante perdita d’identità. Senza traccia di un sentimento
o di una reazione emotiva, pur davanti a scene raccapriccianti,
questi frammenti umani non provano e non riescono a tradurre in
pensiero, né a verbalizzare altro che la propria attesa di un
destino ineluttabile.
Sono uomini e donne solipsisticamente
abbarbicati alle loro chiusure esistenziali, vissute grazie al
marchio di fabbrica, al logo di prestigio. Figure-oggetto protese
verso definitivi e macabri gesti annunciati da pistole insanguinate o
pronte a sparare, da una lattina di killer-bevanda, da un ibrido
fallo di carne e circuiti elettrici, ancora collegato alla rete, ma
ridotto all’impotenza, mozzato e sanguinolento. È la ritualità
disperata di chi si chiede perché non è felice, pur possedendo
tutti gli oggetti del desiderio, in interni dai colori vividi e
accattivanti, pur nella vacuità indecorosa di pareti sporche, di
residui di cibo, dei pavimenti brulicanti di insetti.
Emergono
note e tonalità differenti, registri e cromatismi cinetici, che
muovono forse le larve dalle zampettine rosa a risanare i luoghi
della sopravvissuta apocalisse. E citazioni classiche: il topolino
nell’angolo, retaggio iconico di antiche pitture, ironico e un po’
beffardo autoritratto di un artista, spettatore di tanto orrore, che
grida (ghigna) la sua protesta verso una società ridotta a
rappresentazione angosciosa di se stessa e al contempo volge lo
sguardo al destino dell’uomo, senza però cessare di essere
pietoso, indulgente, recando i colori che offrano almeno qualche
opportunità di riscatto. Quasi a voler affermare, tra i pigmenti
fosforescenti, che in fondo, la vicenda umana, pur sempre uguale a se
stessa, forse non è segnata, non è ancora conclusa.
Gabriele
Di Francesco
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