Per
carità, nessuna analogia. Da italiani maturi e consapevoli, ci siamo
stancati dei raffronti-confronti con altri paesi, nazioni e città.
Viviamo alla giornata fieri delle medie mondiali che ci assegnano
l'ultimo posto in una non ideale classifica di lettori di libri ma
anche di giornali.
Ci siamo trasformati in un popolo di analfabeti di ritorno, e meno male che ci sono i cinquantenni, che riscoprono il piacere di leggere, di studiare, di andare a teatro e ai concerti, altrimenti saremmo alla frutta. Da noi le librerie chiudono. Abbiamo amici “librai morenti” che vivacchiano pensando non più ai libri da consigliare ma all'affitto e alle forniture da pagare: una lentissima agonia scontata con depressioni carsiche. In Scozia, invece, c'è un paese (non una città, proprio un paese) di 1000 anime che vive con i libri e grazie ai libri. Un rapporto residenti/librerie da tremito blu: 11 bookshop, più di uno ogni cento abitanti. Si chiama Wigtown (sud della Scozia, campagna di Galloway) ed è stata dichiarata “città scozzese del libro”. Wigtown era uno dei comuni più poveri della Scozia. Negli anni '50, una crisi economica paralizzante aveva portato alla chiusura della latteria e, sfiga delle sfighe, della distilleria, la conseguenza fu che il governo soppresse perfino la linea ferroviaria. Depresso, desolato, pieno di alcolisti che andavano a rifornirsi della dose giornaliera nei paesi vicini, Wigtown sembrava destinato alla chiusura totale quando arrivò un inglese più disperato degli abitanti del paese. Si chiamava John Carter, gioielliere, vittima di uno scasso che lo aveva privato di tutti i suoi averi (non aveva stipulato una polizza assicurativa contro i furti). Arrivò a Wigtown e con le poche sterline che gli erano rimaste, decise di aprire una libreria antiquaria. Gli affari andarono subito bene e Carter ne aprì un'altra. Il libro diventò, a Wigtown, una vera e propria epidemia fino a quando, nel 1998, la comunità dell'ex paese più povero di Scozia, deliberò di partecipare al concorso “Scotland's national book town”, vincendolo. L'anno successivo nacque il “Wigtown Book Festival”, un appuntamento annuale che si tiene l'ultima settimana di settembre e la prima di ottobre, che richiama ormai grandi scrittori, poeti, letterati, lettori, critici e curiosi da ogni parte del mondo. Il festival si autofinanzia. Se non si trova posto negli hotel (tre) e nei bed&breakfast, si dorme nelle librerie (divani e soppalchi) o si è ospiti degli abitanti. Le cene di mezzanotte sono diventate un must e tutti insieme, lettori e scrittori, si ritrovano alla fine ubriachi come cucuzze a discutere del plot di un romanzo o dei versi di una poesia. Mille abitanti, 11 librerie e nessuna paura di Amazon. La carta a Wigtown vince, fa vincere e fa mangiare, magari con uno scotch post-prandiale e un buon sigaro. Un evento del genere, dalle nostre parti, sarebbe costato almeno 200mila euro, e tutti a carico dei contribuenti.
Ci siamo trasformati in un popolo di analfabeti di ritorno, e meno male che ci sono i cinquantenni, che riscoprono il piacere di leggere, di studiare, di andare a teatro e ai concerti, altrimenti saremmo alla frutta. Da noi le librerie chiudono. Abbiamo amici “librai morenti” che vivacchiano pensando non più ai libri da consigliare ma all'affitto e alle forniture da pagare: una lentissima agonia scontata con depressioni carsiche. In Scozia, invece, c'è un paese (non una città, proprio un paese) di 1000 anime che vive con i libri e grazie ai libri. Un rapporto residenti/librerie da tremito blu: 11 bookshop, più di uno ogni cento abitanti. Si chiama Wigtown (sud della Scozia, campagna di Galloway) ed è stata dichiarata “città scozzese del libro”. Wigtown era uno dei comuni più poveri della Scozia. Negli anni '50, una crisi economica paralizzante aveva portato alla chiusura della latteria e, sfiga delle sfighe, della distilleria, la conseguenza fu che il governo soppresse perfino la linea ferroviaria. Depresso, desolato, pieno di alcolisti che andavano a rifornirsi della dose giornaliera nei paesi vicini, Wigtown sembrava destinato alla chiusura totale quando arrivò un inglese più disperato degli abitanti del paese. Si chiamava John Carter, gioielliere, vittima di uno scasso che lo aveva privato di tutti i suoi averi (non aveva stipulato una polizza assicurativa contro i furti). Arrivò a Wigtown e con le poche sterline che gli erano rimaste, decise di aprire una libreria antiquaria. Gli affari andarono subito bene e Carter ne aprì un'altra. Il libro diventò, a Wigtown, una vera e propria epidemia fino a quando, nel 1998, la comunità dell'ex paese più povero di Scozia, deliberò di partecipare al concorso “Scotland's national book town”, vincendolo. L'anno successivo nacque il “Wigtown Book Festival”, un appuntamento annuale che si tiene l'ultima settimana di settembre e la prima di ottobre, che richiama ormai grandi scrittori, poeti, letterati, lettori, critici e curiosi da ogni parte del mondo. Il festival si autofinanzia. Se non si trova posto negli hotel (tre) e nei bed&breakfast, si dorme nelle librerie (divani e soppalchi) o si è ospiti degli abitanti. Le cene di mezzanotte sono diventate un must e tutti insieme, lettori e scrittori, si ritrovano alla fine ubriachi come cucuzze a discutere del plot di un romanzo o dei versi di una poesia. Mille abitanti, 11 librerie e nessuna paura di Amazon. La carta a Wigtown vince, fa vincere e fa mangiare, magari con uno scotch post-prandiale e un buon sigaro. Un evento del genere, dalle nostre parti, sarebbe costato almeno 200mila euro, e tutti a carico dei contribuenti.
Massimo Consorti
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