Novembre 2013. Praga, Kampa Park.
Il muro in mattoni divide i viali ben curati del parco dall’argine
della Vltlava, per noi Moldava: trasformato in sorprendente
lunghissima lavagna a cielo aperto, invita la fantasia dei passanti a
interrogarsi su cosa vorrebbero prima di morire. Before
I die I want to…,
Předtím než zemřu, chci… (Prima di morire, voglio…).
Si confondono sovrapponendosi le
risposte scritte col gesso, cancellate, riscritte, ricancellate. C’è
chi vuol “Visit Jerusalem”(!), chi vuol abolire il capitalismo
(“Odstranit Kapitalismu”), i meno fantasiosi vorrebbero
dirle-che-l’amo e altro di non riferibile in fascia protetta…
Al di là del muro e del fiume,
l’interminabile merletto dei palazzi antichi, la splendente corona
dorata del Národní Divadlo o Teatro Nazionale, il profilo severo e
scuro del Karlúv Most o Ponte Carlo… Travolse tutto, il fiume,
straripando in quell’agosto del 2002; centro e periferie sotto
milioni di metri cubi d’acqua e Kampa Park proprio lì, figurarsi,
nulla si salvò dalla piena marron che raggiunse i secondi piani. Non
passò che qualche mese, e quel piccolo gioiello tornò
incredibilmente a vivere, identico nella sua struggente bellezza.
Ancora un’esondazione
quest’anno, ancora in estate: ma le tecnologiche paratie stagne
impiantate dopo il 2002 si sono tempestivamente innalzate contenendo
le acque, e il parco, senza danni questa volta, è tornato godibile
dopo una settimana. A fatica ricacci indietro i paragoni che ti
sorgono dentro: troppo mortificante il confronto tra la sciatta
arruffoneria nostrana e l’efficienza mitteleuropea per noi
inarrivabile. Qui, la Sardegna, L’Aquila, le Cinque Terre, Genova,
la Campania… le metterebbero in sicurezza e le aggiusterebbero in
un amen.
Meglio sorvolare, allora,
arrendersi con semplicità al piacere sottile di una veduta, di uno
scorcio inaspettato, anche di un’atmosfera insolita; come quando
sul volo ČSA, sobria compagnia di bandiera, il comandante dalla
cabina saluta e si scusa in perfetto italiano “se il personale
di volo non parla italiano”; e quando appena atterrato, l’aereo
diffonde in sordina ma fedelissimo il secondo movimento (“Vltava”)
del Má Vlast (La mia Patria) di B. Smetana (ispirato alla grande
Moldava che scorre, è lo stesso che accompagna ad ogni primavera il
“fiume” di atleti allo start dell’internazionale
partecipatissima Half Marathon, e ogni volta ti emoziona); o come
nell’affettuoso Café Savoy quando scesa in toilette ti avvolge
suadente la voce di Frank Sinatra che sembra canti solo per te: ti
commuovi alle lacrime, quasi, e tardi a risalire… E ahimè, torni a
fare confronti, non puoi farne a meno, coi pretenziosi caffè del mio
e dei nostri centro-città uccisi dalle musichette idiote e con
servizi igienici da periferie afghane; con certi bar dove per la
toilette (oddio, toilette) devi rumorosamente “chiedere-la-chiave”
così che un ampio uditorio partecipi dell’impellenza della tua
pipì…; o con quel borghese caffè del quartiere Zara – a Milano,
nella città dell’Expo 2015 - con il… wc alla turca!! Cose di
casa nostra, meglio camminare oltre.
E camminando verso Josefov ti
compare, sotto il portico dell’Università, quel vecchissimo
pianoforte: nero e solitario, incatenato ad un’alta inferriata
(perché nessuno lo porti via?). Schiena contro la facciata della
facoltà di Filosofia, praticamente in piazza, e per sgabello una
vecchia sedia da cucina. Più tardi si animerà sotto le dita di un
concentratissimo barbone, la sua busta con le poche masserizie
poggiata a terra. E’ bravo, esegue Mozart e qualcos’altro. Mi
fermo, per chissà che pudore non mi avvicino, ascolto un po’, poi
via…
Before I die I want to…
tornare lì, e fargli domande, stavolta.Sara Di Giuseppe
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