Poderosa Ouverture, quella
della Iphigénie en Aulide di Ch.W.von Gluck che
l’Orchestra Filarmonica Marchigiana sceglie per aprire
l’affettuoso pomeriggio sinfonico al Teatro Dell’Aquila.
Viene da lontano, Ifigenia, e da Euripide attraversa
Racine per arrivare al grande Gluck che ne fa un’opera
di intensità e violenza espressive inusitate nella tradizione
settecentesca: opera di rottura, che richiede all’orchestra un
protagonismo insolito, e in cui la stessa orchestra “nella sua
semplicità coglie il grido della passione, come diceva Diderot,
con spregiudicata verità”, (Paolo Gallarati, La Stampa,
2012).
L’Ouverture, qui nella versione che fu rimaneggiata
da Wagner, sublima epicamente il conflitto natura - religione
che, sotteso all’intera opera, entusiasmò gli illuministi
(soprattutto Rousseau) scandalizzando con la potenza delle sue
tinte i cultori dell’opera italiana: la tragedia di Agamennone
re e padre cui gli dei impongono il sacrificio di Ifigenia sua
figlia perché la flotta argiva possa salpare alla volta di Troia
è tutta nella solennità dell’Andante iniziale e nella
commossa intensità dell’Allegro maestoso. Una raffinata e
intensa Filarmonica Marchigiana, come sempre di altissimo
livello, interpreta con la direzione magistralmente sobria - e
interamente a memoria - del maestro David Crescenzi. E’ un
fil rouge forse, quello dell’innovazione o della diversità,
a legare le scelte musicali di quest’oggi: il Gluck che
rompe una solida tradizione nell’opera lirica ci prepara al
successivo e per certi aspetti “diverso” Brahms,
preannuncio a sua volta del finale Beethoven che non ti
aspetti. Anche il Brahms del Concerto in Re magg. Op.77
rompe infatti un modello: la tradizionale contrapposizione tra
solista e orchestra è qui superata in un sapiente equilibrato
amalgama tra i due elementi. Ed è catartica per noi, dopo la
passione tragica di Gluck, l’immersione nella luce di quel
violino che “disegna” sublime l’idillio austriaco di Brahms,
il paesaggio carinziano e la colorata tavolozza dei monti innevati,
dell’azzurro del cielo e del lago di Worth. Stefan
Milenkovich suona quel violino così come Pan deve aver
suonato la sua Siringa del disperato amore o Apollo la
sua lira. Enfant prodige che suonava a tre anni con la mamma
al pianoforte e, decenne o poco più, si esibiva in concerto davanti
a presidenti e pontefici. Pensi che sia nato col violino in mano, che
il suo esser prodigio l’avrà forse reso un po’ marziano e altero
(chè ne avrebbe ben donde): così non ti aspetti il giovane uomo
atletico che sprizza salute e simpatia, dal viso franco e
comunicativo che si trasfigura mentre vola col suo strumento, che
scherza col pubblico nel dolce italiano dall’accento slavo dopo
averci mandato in trance estatica con quel suo violino stregato. E
che perfino ha ricevuto, a Belgrado,
il riconoscimento di “Most Human Person” per il suo
impegno umanitario. Non vogliamo proprio lasciarlo andare, e ci
regalerà ancora magia, stavolta da Bach; lo vedremo ancora,
generoso e amabile, firmare autografi e cd nel foyer del teatro fino
a tardi. Torneremo ancora, dopo l’intervallo che ci riconduce a
terra, a “disorientarci” e sorprenderci, per il Beethoven
dell’Ottava Sinfonia in Fa magg. Op.93 che chiude
l’affascinante percorso odierno dentro una musica che scherza con
gli schemi. Sinfonia la meno riconoscibile tra le beethoveniane per i
“tratti umoristici se non addirittura burleschi” (S.Sablich),
questa che fu anche chiamata “Sinfonia del buonumore”.
Definizione che però fece dire al Riezel: “Che potenti
pensieri sono quelli che gli ispirano quel buonumore! E’ davvero il
buonumore d’un dio…”. L’esecuzione della Filarmonica
ci consegna integra la forza suggestiva di una composizione di cui
Sergio Sablich scriveva: “Altro che puro gioco musicale,
altro che settecentesca gracilità costituzionale! L'Ottava è
il frutto della completa maturità di Beethoven, un frutto
prezioso e perfetto, una conquista dell'ultima postazione prima di
spiccare il salto verso le regioni incontaminate dell'ultimo e più
tardo stile. Che cosa è del resto la «gioia, bella scintilla
divina» della Nona Sinfonia se non una metafisica
trasfigurazione del buon umore della Settima e dell'Ottava?”
Sara Di Giuseppe
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