03/02/14

Un ricordo di Giovanni Quondamatteo. L’ultimo cantastorie

Nell’antichità medievale esistevano un numero di poeti-cantori a cui era destinata la deposizione della memoria collettiva. Essendo quelle civiltà basate essenzialmente sull’oralità delle fonti ed un rapporto diretto, non culturalmente mediato od esclusivo, con la scrittura, era necessario, gioco-forza, che la multiforme materia delle tradizioni si condensasse e rivivesse nei racconti epici di una letteratura non aulica ma, per tanti aspetti, vicina alla lingua del popolo, al suo sentire, alle vicende più immediate di un mondo da scoprire attraverso la qualità disvelante delle parole, cariche di affabulazione.
La parabola artistica e poetica di Giovanni Quondamatteo sembra, per tanti versi, tornare alle origini del dettato letterario, ovvero ad un tessuto lirico, non ornato di “una metrica ampollosa o di assonanze ritmiche” – come direbbe lo storico locale Gabriele Cavezzi – quanto, piuttosto, disadorno, mirato verso la nudità dell’espressione, che ricalca le sprizzanti ed affusolate forme del parlato.
Un parlato che, per Quondamatteo, si rende carne dei giorni, orizzonte di speranza, e, soprattutto, vicinanza al suo intimo vivere e sentire. E’ la lingua sapida e pregnante del dialetto, sambenedettese per Giovanni, reso strumento vivo e duttile nelle mani di un sapiente artigiano che ha saputo farne un impasto palpitante, appena uscito dalla fucina della vita cittadina, con il suo concentrato di vissuti, esperienze, sentimenti.

Quondamatteo ne ha cantato i tanti aspetti e momenti, sin dagli inizi, nel 1982, con la prima poesia, La Ulèie (La voglia), a cui hanno fatto eco decine di composizioni, rigorosamente in vernacolo e negli inconfondibili endecassillabi baciati, sfociate poi nella raccolta che porta il nome di quel benefico esordio. Perseguita la linea dei grandi maestri della letteratura sambenedettese in dialetto – Bice Piacentini-Rinaldi, Giovanni Vespasiani, Ernesto Spina a cui il poeta rende in qualche modo omaggio – egli se ne distacca per la varietà e la freschezza del tono, l’immediata, intensa adesione alla particolare geografia di affetti e di ricordi appassionati tipici di chi ha vissuto la vicenda della “sambenedettesità”. Da sempre vissuto in Via Volturno, “l’antico quartiere di riva del borgo marinaio”, ci ricorda ancora Cavezzi, di padre pescatore – Fedele Quondamatteo, per gli amici “Sciuè”, a cui dedicò la raccolta a cui si accennava – con una versificazione “semplice ed arguta” allo stesso tempo – come precisa giustamente la poetessa Enrica Loggi – a piccoli grappoli di rime, dove la dolcezza della rima trasporta e nobilita la voce del ricordo e della testimonianza, Quondammatteo ha ricompreso il suo orizzonte percettivo nel mondo a cui apparteneva, in una sintesi incisiva e più che mai viva. Un canto capace di farsi scherzo o preghiera, ritratto o pensiero accorato, larvata polemica o svagato lirismo, di toccare l’animo umano e di ascoltarlo umilmente (la vecchiaia, la morte improvvisa, la sofferenza ed il disagio di lavori duri come quelli del pescatore, dei funai-bambini, del canapino, delle retare) così come di evidenziare entusiasmi e movimenti collettivi (il calcio, il pattinaggio, la religione, le professioni, i rituali sociali ed i costumi civili). Giovanni Quondamatteo ha saputo trasmetterci il segno ed il senso, sempre nuovi, della nostra convivenza e ci ha dato un motivo in più per sentirci vicini alle radici di un passato che sarà ancora più forte e significativo quanto più sapremo accoglierlo e capirlo. Come Giovanni, che regalava a tutti – me compreso quando lo incontravo – con spontaneità e infinita dedizione, le sue piccole creature: le poesie-racconto.

Alceo Lucidi

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