Nell’antichità
medievale esistevano un numero di poeti-cantori a cui era destinata
la deposizione della memoria collettiva. Essendo quelle civiltà
basate essenzialmente sull’oralità delle fonti ed un rapporto
diretto, non culturalmente mediato od esclusivo, con la scrittura,
era necessario, gioco-forza, che la multiforme materia delle
tradizioni si condensasse e rivivesse nei racconti epici di una
letteratura non aulica ma, per tanti aspetti, vicina alla lingua del
popolo, al suo sentire, alle vicende più immediate di un mondo da
scoprire attraverso la qualità disvelante delle parole, cariche di
affabulazione.
La
parabola artistica e poetica di Giovanni Quondamatteo sembra, per
tanti versi, tornare alle origini del dettato letterario, ovvero ad
un tessuto lirico, non ornato di “una metrica ampollosa o di
assonanze ritmiche” – come direbbe lo storico locale Gabriele
Cavezzi – quanto, piuttosto, disadorno, mirato verso la nudità
dell’espressione, che ricalca le sprizzanti ed affusolate forme del
parlato.
Un parlato che, per Quondamatteo, si rende carne dei giorni,
orizzonte di speranza, e, soprattutto, vicinanza al suo intimo vivere
e sentire. E’ la lingua sapida e pregnante del dialetto,
sambenedettese per Giovanni, reso strumento vivo e duttile nelle mani
di un sapiente artigiano che ha saputo farne un impasto palpitante,
appena uscito dalla fucina della vita cittadina, con il suo
concentrato di vissuti, esperienze, sentimenti.
Quondamatteo
ne ha cantato i tanti aspetti e momenti, sin dagli inizi, nel 1982,
con la prima poesia, La Ulèie (La voglia), a cui hanno fatto
eco decine di composizioni, rigorosamente in vernacolo e negli
inconfondibili endecassillabi baciati, sfociate poi nella raccolta
che porta il nome di quel benefico esordio. Perseguita la linea dei
grandi maestri della letteratura sambenedettese in dialetto – Bice
Piacentini-Rinaldi, Giovanni Vespasiani, Ernesto Spina a cui il poeta
rende in qualche modo omaggio – egli se ne distacca per la varietà
e la freschezza del tono, l’immediata, intensa adesione alla
particolare geografia di affetti e di ricordi appassionati tipici di
chi ha vissuto la vicenda della “sambenedettesità”. Da sempre
vissuto in Via Volturno, “l’antico quartiere di riva del borgo
marinaio”, ci ricorda ancora Cavezzi, di padre pescatore – Fedele
Quondamatteo, per gli amici “Sciuè”, a cui dedicò la raccolta a
cui si accennava – con una versificazione “semplice ed arguta”
allo stesso tempo – come precisa giustamente la poetessa Enrica
Loggi – a piccoli grappoli di rime, dove la dolcezza della rima
trasporta e nobilita la voce del ricordo e della testimonianza,
Quondammatteo ha ricompreso il suo orizzonte percettivo nel mondo a
cui apparteneva, in una sintesi incisiva e più che mai viva. Un
canto capace di farsi scherzo o preghiera, ritratto o pensiero
accorato, larvata polemica o svagato lirismo, di toccare l’animo
umano e di ascoltarlo umilmente (la vecchiaia, la morte improvvisa,
la sofferenza ed il disagio di lavori duri come quelli del pescatore,
dei funai-bambini, del canapino, delle retare) così come di
evidenziare entusiasmi e movimenti collettivi (il calcio, il
pattinaggio, la religione, le professioni, i rituali sociali ed i
costumi civili). Giovanni Quondamatteo ha saputo trasmetterci il
segno ed il senso, sempre nuovi, della nostra convivenza e ci ha dato
un motivo in più per sentirci vicini alle radici di un passato che
sarà ancora più forte e significativo quanto più sapremo
accoglierlo e capirlo. Come Giovanni, che regalava a tutti – me
compreso quando lo incontravo – con spontaneità e infinita
dedizione, le sue piccole creature: le poesie-racconto.
Alceo Lucidi
Nessun commento:
Posta un commento