Sulla
carta, sembrerebbe uno strambo duo jazz, improbabile e improponibile,
piano-trombone. Pensa subito, un tapino, a un’influenza del
batterista, a un contrattempo del bassista e del chitarrista, il
treno che a Porto Sant’Elpidio non ferma (facile!), l’aereo
dirottato in Malesia, o in Etiopia… Magari sopra c’era il
sassofonista. Invece piano-trombone altro che, se si può fare. A
patto di saper suonare molto diversamente da quando si è in 4 o 5, e
di essere bravi. Poi, la limonaia aiuta: questo posto intrigante e
profumato (ah, abitarci!…) produce sempre ottimi concerti.
L’inizio
è un tuono di Do basso (mi pare), col seguito di un impressionante
tappeto di arpeggi che manda subito in temperatura il (non eccelso)
Kaway a non lunghissima coda. Il trombone entra dopo, al ralenti,
quasi con indolenza. Invece pensa. E quello che suona è talmente
affettuoso da sembrare una serenata. Non posso farci niente, se
immagino un faticato e scuro porto di Francia, e un grosso uccello
migratore, forse un albatro dalle sopracciglia nere, che volando a
basse spirali manda versi strani ma aggraziati, penetranti,
d’incandescente amarezza. Note alate, di una periferia del Jazz.
Anche
nel secondo pezzo, atmosfere liquide, come di porto di Bretagna:
barche… battelli… vele… maree… vento… e uccelli, guerrieri
o pacifici, abili aviatori. Sul palco che scricchiola come una tolda,
ma a tempo, i
musicisti - un tutt’uno col soffitto e pavimento -
raccontano il paesaggio. Gorgoglii d’acqua: “navigando”
pericolosamente sullo sgabello, Guidi fa cascate di note che a tratti
diventano rumbe (sempre senza carnevale). E Petrella è un faro. Non
convenzionale. Luccicante. Quando dalla scorticata custodia spunta la
sordina blu, tutto diventa ancora più intimo, spirituale. Cambiando
lingua, il trombone diventa tromba: parla in blues. E che blues.
Mentre su quell’altra tastiera col guscio di plastica, DAN DAN DAN,
tre note tre, discendenti, come campane, poi tre accordi tre, e poi
un quarto, pensoso, di settima; quindi daccapo, più volte.
Ossessivo. Marziale. Senti il caldo, il silenzio, la solitudine,
fiori di cotone che sventolano ovattati. Dialogo lento, intenso,
misterioso, accecante. Spazi piatti, senza orizzonte: “Settimo
Blues”, un incanto. Beh, ci sanno fare questi due, sanno
dove vogliono arrivare (…)
Il
quadro cambia ancora. Accompagnato da un’orchestra di tasti, pare
che trombone-Petrella si schiarisca la voce. Senti il respiro di un
vulcano. Niente ritmo battente, ma suoni lunghi, come serpenti. Si
viaggia altrove, in quota, tra misteri e leggende d’Africa
Orientale, poco turistici. Immagino un jet che atterra “in salita”
sul marrone-rossiccio dell’altopiano, tra milioni di case,
all’alba… Ah, inconcepibile per un tapino recarsi nella remota
Addis Abeba. Anche se questa “chiama”. A 3.000 metri ci
mancherebbe il fiato, e poi lassù niente limoni, limonaie… Fortuna
che il canto jazz
di
Addis Abeba si possa “vedere” da qui, col binocolo marca
SOUPSTAR.
PGC
Nessun commento:
Posta un commento