Mortali, destatevi. Non siete
ancora liberi dalla vita.
(G.Leopardi, “Cantico del
Gallo Silvestre”)
Sul palco, davanti al sipario
chiuso, una sedia vuota e un coccodrillo acquattato: aria più
sorniona che truce, come si conviene a un lucertolone di plastica,
senza spargimento di sangue tornerà dietro le quinte a missione
compiuta. Inganniamo l’attesa compilando diligenti il questionario
consegnatoci all’ingresso (tra i desiderata indichiamo di
getto - sommersi da cappotti e sciarpe - “attivare il servizio
guardaroba” e “più puntualità”); invano, perché non vedremo
qualcosa o qualcuno che li raccolga all’uscita. Di sicuro siamo noi
a non aver trovato, siamo anzianotti. Pazienza.
Intrigante l’idea di una
trasposizione drammaturgica delle Operette Morali, operazione
a cui il corpus parrebbe prestarsi in virtù della struttura
variegata, della pluralità dei registri, la cui organicità risiede
nel fine che è quello di irridere alle mistificazioni
antropocentriche, respingere "ogni illusione riparatoria
rispetto all’infelicità dei mortali" (che sia il mito del
progresso o la prospettiva religiosa), accogliere senza infingimenti
la tragica umana consapevolezza del vero. E tuttavia sarà un
crescente senso di delusione a insinuarsi col procedere dello
spettacolo e a fissarsi come l’impronta più netta della serata.
Indubbia la fedeltà ai testi e sicuro il professionismo degli
interpreti, ma la complessità argomentativa e i registri stilistici
che dei Dialoghi compongono la poderosa struttura scoloriscono
appiattendosi nella trasposizione scenica e molto si perde del
registro lirico e del potente afflato tragico che permeano l’opera.
Se il comico è funzionale nei
Dialoghi alla rappresentazione del tragico, e l'ironia prevale
anche nel dipanarsi di temi filosofici dolorosi e terribili, chi
abbia amato - fra gli altri - il Dialogo di Federico Ruysch e
delle sue mummie, troverà imperdonabile l’averlo reso una
sorta di happening di zombies dalla faccia verdastra;
imperdonabile che del “Coro dei morti”, stanza di canzone
che apre il Dialogo, si perdano la tragica potenza - Che
fummo? Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome? - e la limpida
intenzione filosofica nei versi poco distinguibili cantati dal Coro
dietro il sipario chiuso (pur se di qualche suggestione emotiva).
Complici sono forse le scene poco efficaci (benché di Mimmo
Paladino) unite a non indovinati espedienti (un po’ da recita
scolastica): i globi luminosi in testa alle personificazioni della
Terra e della Luna nel Dialogo omonimo; il
testone di gallinaceo di modello carro-viareggino per il Cantico
del Gallo Silvestre; il pupazzone con nicchia su cui, nel Dialogo
della Natura e di un Islandese è poco ieraticamente
appollaiata la Natura stessa coi piedi penzoloni: resta poco
del respiro tragico con cui quella “forma smisurata di donna […]
di volto mezzo tra bello e terribile” afferma le leggi di un
inesorabile materialismo (“Tu mostri non aver posto mente che la
vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e
distruzione”), la propria totale indifferenza alle sorti umane
e la marginalità dell’uomo nell’universo (“…Se anche mi
avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne
avvedrei”) e lascia irrisolte le disperate domande di senso
dell’Islandese. Ed è un peccato che proprio il
personaggio Leopardi/Tristano del “Dialogo di
Tristano e di un Amico”, con la sua sfida all'ottimismo del
secolo, sia quello più in ombra di tutti.
Ci sono eccezioni. La “Storia
del genere umano”,
efficacemente trasferita dal narratore esterno a un canuto severo
Giove narrante, mantiene integra la dimensione mitica e
allegorica entro la quale si dispiegano le vicende di una umanità
tragicamente destinata alla più completa e consapevole infelicità.
Il “Dialogo di Plotino e di
Porfirio” conserva il tono dolente e pensoso del confronto fra
i due neoplatonici, che alla rivendicazione del suicidio da parte di
Porfirio come rimedio alla condizione esistenziale - “contro
natura” perché votata all’infelicità - oppone con
Plotino/Leopardi una morale che da filosofica si fa sociale e
solidaristica (“Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme”)
anticipando l’altissimo tema civile della “Ginestra”.
Nel Cantico del Gallo Silvestre, neppure la viareggina testa
di pennuto riesce ad oscurare la desolata visione di un universo
proiettato verso il nulla, quando “un silenzio nudo, e una
quiete altissima empieranno lo spazio immenso”.
Improbabile, insomma, che il
Leopardi di questa sera abbia innamorato di sé lo studente
avventuratosi in teatro dietro minaccia del prof… Se aggiungiamo
Dustin Hoffman, milionario piazzista della Regione Marche
per interposto Leopardi, cominciamo a capire perché sul
recanatese Colle dell’Infinito stiano per schiaffarci un
Bed&Breakfast.
Sara Di Giuseppe
E allora non resta che dire anche noi "viviamo e confortiamoci insieme".... Comunque non è la prima volta che, andando molto controcorrente, penso che la fama di Martone sia alquanto usurpata... Ma anche su questo aspetto del problema Giacomino troverebbe senz'altro uno dei suoi straordinari commenti, quindi noi tacciamo.
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