Esiste una sostanziale
differenza, una affinità discosta che separa, come due gemelli
diversi, Kafka da Buzzati, quando centrale assumiamo
quel sottile concetto di chiusura/limite. Dire questo è
l’approssimazione estrema, eppure si dimostra essere anche una
incisiva demarcazione, a partire da una constatazione che più che
ragionata ha dell’istintivo, come la maggior parte delle intuizioni
emotive che forse a posteriori un ragionamento potrebbe poi
convalidare.
Kafka: scatola chiusa,
asettiche pareti che – come in un racconto di Edgar Allan
Poe – si serrano e drasticamente riducono lo spazio dove il
soggetto resta contenuto, quindi pressato, e occluso, sgomento (e
sgominato da un dito indice che lo trova come segugio dal fiuto
infallibile) in un bozzolo angusto e immancabilmente freddo,
metallico e disadorno come l’inverno, emotivamente congelato,
razionalmente sigillato e – forse per questo – con un eccesso di
razionalità che sfocia e produce una collaterale irrazionalità
ingestibile dal lettore e dai personaggi stessi, dichiaratamente
sogno al rovescio. Con un ribaltamento del ragionevole, si ottiene di
attuare un effetto collassante in uno schianto del respiro, in
un’ipersensibilizzazione claustrofobica in cui i margini di
soffocamento si restringono sempre più. A lato e complice, oltre che
una situazione oggettivamente opprimente, è l’ubicazione
responsabile del creare un’asfissia patologica: l’ermeticamente
confinato, il circostanziato, l’oltremodo definito e contenuto. La
camera chiusa (senza vista) i cui muri disegnano un universo, dove il
dentro ed il fuori, incubo e libertà, morte e vita, si escludono a
vicenda e – molto di più ed oltre – non possono, non riescono,
non devono comunicare tra loro. Un gulag del soggetto che
rattrappisce e si smunge – infine – del tutto di vita.
Inaridendosi allo stremo sentimentale in un labirintico raggelamento.
Buzzati viceversa si situa
nello sconfinato, nell’infinito, nell’eterno ed anche –
talvolta – nel ricorsivo, sempre tuttavia nella sua
ipermoltiplicazione che lo riconduce all’illimitato:
centrale il concetto di soglia, simbolo dell’impossibile,
dell’umanamente inesperibile, del segno dell’inarrivabile, della
distanza impercorribile per l’uomo – per la sua esistenza che si
contrappone e si denota come limitata essenzialmente e di cui potere
avere reale esperienza. L’infinito si misura con il finito
dell’uomo: grandezze – due metri non combacianti – che tuttavia
non mancano di bilanciarsi, di soppesarsi, di attribuirsi reciproci
significati e sensi. L’uomo è sfuggente, essere che apparentemente
soltanto attraversa la soglia, ma non trova di che placarsi scoprendo
dietro questa un’altra porta verso lo sconfinato: questione di
allungamento di prospettive, di orizzonti posti più in là, che si
distanziano man mano che i passi si avvicinano. Così l’uomo non è
chiuso passivamente nell’incubo angusto, ma resta disperso
nell’impossibilità del compiere la massima distanza possibile:
l’infinito. L’uomo che il tempo disegna, che l’età scolpisce,
che l’assurdità anche intorpidisce e rassegna: l’uomo che
affronta la morte, guardandola in faccia, che più che paura di
finire teme il valico, la finale consapevolezza di non avere
terminato il cammino ancora lungo, fino a dove non si riesce neppure
a poter immaginare. I muri esistono: sono le certezze, le abitudini,
la tranquillità borghese, se vogliamo, la vita che non osa
l’epifania del triste, della prematura fine, dell’oblio. Esistono
anche i mantelli, che nascondono, che celano, che coprono, che
svelano – infine – il mistero. Non questa volta incubo, ma –
anche quando non è altro che la morte – puramente e meramente
ancora mistero, enigma fascinoso posto metafisicamente, entità
sconosciuta e ignota, senza volto, davanti a cui restiamo disarmati
per essere stati raggiunti – infine – troppo presto e
prematuramente.
Se Kafka ci chiude, ci sigilla,
ci serra nell’incubo senza respiro, muro di cuoio, Buzzati ci
lascia nello sconfinato, ma è una finta dispersione attorno a un
punto imperniante che è e resta il tempo, la vita, che passa
inesorabile mentre i nostri desideri si allungano, inseguendo un
orizzonte ormai già troppo lontano.
Due forme di una sensibilità
rassomigliante dell’uno e dell’altro, un volto dotato di due
profili, un cubismo esterrefatto dell’uomo che resta strozzato dal
nulla/tutto o dissipato nell’impossibile. La libertà resta una
luce impressa e allucinata negli occhi appena prima del buio, nel
primo, nel secondo la vana speranza racchiusa nelle azioni prima di
franare inesorabilmente nel finito limite. E l’intero quadro
risuona di due voci. Con una riflessione dai valichi inarrestabili
tanto quanto le domande che nascono dalla camera chiusa o –
viceversa – dalla soglia impossibile.
Margherita Lollini