Giuseppe Pontiggia è il
giocatore invisibile del suo romanzo, dei suoi romanzi. Il pathos di
un mistero prende luce dal paesaggio, dagli angoli di mondo, statici
quadri ad elementi mobili, dove un pensiero cogita, errabondo ma
esatto, come una scalfittura. Ma l’incisione della mente fantastica
del lettore avviene per gradi, quando la pregnanza di un particolare
sprigiona la necessità, interiore più che altro, di un’inchiesta.
Come battute serrate di un match tennistico, come le secche
profetiche sentenze di una Sfinge contemporanea ma anticamente
misterica, così il dialogo inquisitorio si dispiega, dall’uno
all’altro interlocutore, con la forza della palla che scotta, ma
che si tiene in mano con buon viso a cattivo gioco.
Le interrogazioni
che portano a sollevare dubbi altro non sono che affondi in quel ben
più esteso mistero che è l’essere in sé, nella sua forma sempre
in divenire, e nei suoi dubbi sotterranei che, portati a galla,
annegano in un’angoscia da cui trapela la vacillante condizione
esistenziale dei personaggi. Questi uomini apparentemente
incrollabili che vengono punti nel tallone d’Achille, colpiti e
clamorosamente piegati come una carta da gioco in ginocchio sul
tavolo dal panno verde. Il panno verde non è che la vita, che si fa
teatro di posa per una recita di indifferenza finta, ora che la
nitidezza della propria condizione si perturba, si eclissa, a poco a
poco, e i pilastri si fanno turbinanti svolazzi di carta di giornale.
La coppia insoddisfatta e insofferente è sempre la controparte
privata in pericolo di crollo di una carriera pubblica decisamente
scoperta fallimentare e di insuccesso: la stima e il rispetto si
macchiano di derisione, di chiacchiera, di imperdonabile errore da
additare. In questo senso, il personaggio di Pontiggia è un uomo
fallito, ma non è l’uomo de La morte in banca: non è il
routinario, il morto spirituale, il monotono e monocorde rassegnato.
No, al contrario, è l’uomo che si credeva di avere scalato la
vetta, di avere il trofeo a lungo agognato, convinto che il suo
giusto sacrificio possa essersi rivelato il mezzo migliore per
assicurargli la gloria. In verità, più che di assunzione ai cieli
superni, qui si tratta di una discesa agli inferi: e gli inferi non
sono che la presa di coscienza di se stessi, della propria goffa
piccolezza, del proprio essere un uomo preso sottogamba, un mediocre
sublimato. Il tradimento coniugale corona questa scoperta del nulla,
il nulla che è l’uomo di Pontiggia, tratteggiato con dovizia e
costante perizia in quel suo romanzo che porta la mano invisibile del
suo autore. Un autore che guarda, che osserva, che ruba immagini da
una sceneggiatura di vita: cinematograficamente, con la sapienza
inspiegabile di chi riprende da dietro una macchina da presa. O come
di chi muove le sue pedine senza cuore partecipato su di una
scacchiera. Dove non può che giocare il ruolo dello scrittore
invisibile.
Margherita Lollini
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