Giurerei
che sorridono, durante il concerto, dentro le severe cornici: il
paludato cardinal Pelagallo alla mia destra, e sua eminenza Girolamo
Azzolino, e perfino quella faccia truce di un Uguccione della
Faggiola. Anche questa Sala
dei Ritratti s’è
fatta di colpo meno austera, quando le acrobatiche vibrazioni del
Trio Lennon ne hanno attraversato i rutilanti velluti.
Non
potrebbero essere fisicamente più diversi dai quattro di Liverpool,
i “nostri” musicisti. Neanche i capelli a caschetto. Luca Marziali,
che suonando si stende a volte in diagonale come un campione di sci
in discesa libera a Crans Montana; il lungo dinoccolato Roberto Molinelli con
la classicissima viola e la zazzera rock anni settanta; Alessandro Culiani
virtuosissimo primo-violoncello che si fa collante tra violino e
viola e all’occorrenza strumento a percussione e altro ancora.
Ma è
nella modalità originalissima del ripensare, rimaneggiandola, la
musica dei Beatles che il Trio vi si lega intimamente cogliendone la
vera peculiarità: quella di orchestrazioni assolutamente innovative
nel loro affidarsi a strumenti che più classici non si può: gli
archi.
Il
sorprendente viaggio nella contaminazione è preparato dal “Blue
Rondo à la Turk”
dello scomparso maestro del jazz Dave Brubeck. La predilezione del
musicista per i non canonici tempi dispari (il nove ottavi nel Blue
Rondo) è il trait d’union con la “contaminazione” operata dal
Trio sulle composizioni dei Beatles, melodie che trasportate in altra
dimensione con naturalezza si lasciano attraversare da Mozart,
Beethoven, Bach… e dal jazz.
Col
garbo e la spontaneità di una conversazione tra amici, Molinelli -
oggi speaker del gruppo - ci introduce alle ragioni e al metodo di
queste incursioni nella “classicità” dei Beatles. Così
ascoltiamo una Michelle
dall’avvio
classico divenire via via “impressionista” primo ‘900 e swing,
con tracce di Ravel, Debussy, Respighi, Puccini. La visionaria
Eleanor
Rigby già
concepita per quartetto d’archi, la cui struttura si fa qui
brillante e impetuosa, (e l’”elegiaco” Marziali,
con intensità, sempre più allungato in diagonale…). La dolce
marcetta Lucy
in the Sky with Diamonds (con
incorporato acronimo LSD, dicono i maliziosi) che - ci segnala
Molinelli - nel suo facile leggero ritornello richiama l’“Amami
Alfredo” del grande Giuseppe nazionale. E siamo subito dopo al
virtuosismo di Help
che,
nato per soddisfare la richiesta di una composizione di facile presa,
resta legato a un passaggio problematico nell’esperienza
esistenziale di Lennon. Yesterday,
capolavoro “nato per caso” già arrangiato all’origine per
quartetto d’archi (al costo di 25 sterline, una sciocchezza anche
per allora), ci incanta coi suoi fraseggi incrociati e sfalsati che
si inseguono in compensazione armonica per poi puntualmente
ritrovarsi. E Come
Together,
in fantastico giro di basso, concentrato di lirismo e jazz. E Girl,
delicatissima sintesi della poesia di Lennon, ballata ancor più
intima nel sublime pizzicato dei tre strumenti. Infine Hey
Jude,
lunghissima al tempo (quasi 8 minuti), suonata addirittura con la
London Symphony Orchestra (volevano pure, i Beatles, che gli
orchestrali cantassero il lunghissimo refrain
“Naaa-naaa-naaa-na-na-na-naaaaa-na-na-na-naaaaa
He-Hey Jude”,
e quelli risposero con aplomb tutto british “non se ne parla
nemmeno”): il nostro Trio Lennon riesce a farcela conoscere in un
modo ancora diverso, eppure l’abbiamo gustata milioni di volte…
Reclameremo
più di un bis e il Trio, generoso, non si sottrae: di nuovo Eleanor
Rigby e Girl, più Hey Jude. Clap-Clap.
Si
conclude, e all’uscita mi guardo indietro per un momento: i circa
trenta personaggi si sono ricomposti, fissi nei fondi scuri dei
ritratti, pronti alla lunga noia nell’austera sala senza finestre
dal soffitto pallido.
Ma
giuro d’averli visti sorridere, per un’ora.
Sara
Di Giuseppe
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