Hanno
tutti lo spartito davanti. Ma mi domando “come” potrà essere
scritta la musica di questi quattro. Gli basta il solito pentagramma
e le note conosciute? Loro lì, serissimi, che neanche girano pagina,
e dire che i pezzi sono tutt’altro che brevi. E niente di
ripetitivo, ogni secondo cambia proprio tutto tutto! Sì, d’accordo,
roba da NEW YORK,
ho capito. Ma qui siamo in un piccolo, intimo teatro dell’ottocento
a ferro di cavallo, platea al minimo, ordini di palchi con spazi al
centimetro e da torcicollo, sipario di classico velluto rosso… Chi
te lo dà, a N.Y. E
pure noi tapini, una quarantina di maschi in tutto (ah, le
donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo),
cosa c’entriamo con N.Y.
e questa sua musica quasi inconcepibile, difficile da seguire,
impossibile da “ricordare”?
Alzi
la mano chi nei primi 10-15 minuti non l’ha pensato. Fortuna però
che le nostre orecchie di campagna (ma già in po’ educate alla Tam
school…)
hanno avuto pazienza. Ottimo concerto. Arduo spiegare, nemmeno ci
provo. Ma parlo per me: ecco, per me è stato come andare per isole
remote.
Quelle “invisibili”, a malapena segnate su mappe e carte
geografiche. Dai nomi bizzarri, misteriosi, evocativi. Isole
piccolissime sparse negli oceani, fuori dalle rotte, che odorano di
naufragio. O disabitate, o abbandonate, o proibite. Isole miraggio
dall’aria corsara. Sfrontatamente selvagge, primitive,
scomodissime, ingannevoli. Lussureggianti o desertiche. Piene di
silenzio come di rumori musicali. Con animali curiosi. Mondi
miniature di altri mondi. “Remote” dice tutto. Dice che ce ne
sono tante, di tutte le variazioni cromatiche o semplicemente
bianche, argentate qualcuna, da sembrare d’acciaio…
Ascoltare
questo Jazz di N.Y.,
allora, è come tuffarsi in queste isole. Sono viaggi in disparte,
segreti, d’esilio, d’incoscienza, indesiderati ai più. Viaggi
sudati. Senza agenzia. Viaggi di pathos in labirinti con pareti
d’Oceano. Viaggi missionari, incomprensibili, magnetici, che
t’impietriscono. Viaggi nel Jazz senza mai terraferma. Solo
orizzonti, e stelle,
e lune,
di jazz.
Conviene
che tu prima ti faccia un po’ esploratore, per abituarti alle
scoperte e alle avversità senza scoraggiarti. Devi avere più ansia
che voglia di libertà, ansia di mistero, di smarrimento, di
astrazione. Rischiando di non capire, o di essere espulso dalla
magia. Ci vuole impegno per entrare nella bellezza di queste
sconosciute Isole
del Jazz,
perché loro sono proprio ai margini, anche se forti e dure e ricche
e possenti. Come l’acciaio. Devi fare il “Robinson”,
oppure rinunci. Nessuno ti obbliga. Si può stare benone con le altre
musiche, gli altri pentagrammi, le altre note, gli altri prudenti
“viaggi”. Va bene lo stesso.
Ralph
Alessi,
che d’acciaio s’intende…, continuerà a fare musiche argentee
come l’acciaio, con più di duemila
enigmi,
forse troppo complicate per noi globalizzati. Ma meno male. Strano
solo che lui venga da NEW
YORK,
e non da un’isola remota…
PGC
PGC
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