Bukowski si attesta,
letterariamente disquisendo, come quanto mai lontano dall’aspettativa
che pare essersi issata da una certa folla di voci entusiaste che, al
loro incontro con le opere di questo autore, solleva opinioni di
estrema identificazione, con quello che potrebbe sembrare un giocoso
coetaneo con cui condividere un’insoddisfazione o insofferenza
(differentemente connotata e a dosaggi sfumatamente misurati
diversamente) e trasgressività di fondo alle norme consuete del
vivere secondo società odierna.
Un autore che si potrebbe più
precisamente definire un “falso semplice” (oppure, con un’altra
espressione non meno fedele al vero un “profondo semplice”), sia
per quanto concerne la dimensione prettamente stilistica sia per
quanto riguarda l’aspetto strettamente contenutistico dei suoi
testi. Infatti, a dispetto di una palese nuda elementarità, questa
non appare altro che una barricata ingannevole volta a celare, in
realtà, quella che è piuttosto una complessità di ampia e
ragguardevole mole.
Non si può intendere – è una
verità data – la frenesia autoironica del personaggio imbastito
dall’autore senza rivolgersi e rintracciare appigli forti ai grandi
protagonisti senza tempo del romanzo russo ottocentesco (e qui il
riferimento è massimamente a Dostoevskij) né – d’altronde –
senza passare in rassegna il più recente Novecento russo, con la sua
carrellata di eccentricità della più insignificanza media: soggetti
ossia banalmente mediocri, mirabilmente pigri e tribolatamente
affaccendati in una comica trafela rivelatrice di ilare – talvolta,
persino – nevrosi.
Oltre a ciò, la predominanza
assoluta dell’azione funge da primo motore narrativo, potendosi
fare derivare da quelle medesime radici che affondano nell’identica
matrice letteraria di cui l’autore, per motivi evidentemente
anagrafici (il padre di origini anche polacche), pare senza dubbio –
anche forse involontariamente o inconsciamente, per una sorta di
antropologica ascendenza – essere imbevuto in modo pregnante.
Tuttavia, è soltanto nel sistema
valoriale, occupazionale, economico americano capitalistico che è
possibile inquadrare le storie di Bukowski, cui si aggiunge, quindi,
una spiccata connotazione proletaria, laddove la volgarità gratuita,
la sessualità dai tratti liberatori e opportunamente animaleschi,
l’alcol smodato e la vita trapuntata di svaghi da dopolavoro
popolare con la loro subdola ordinarietà, fonda definitivamente e
congiuntamente l’identità del protagonista, bestialmente
complesso, elementarmente febbricitante, restituendo con uno stile
secco, sintetico, visivo, non privo di cesure drastiche al corredo
aggettivale, la possibilità al pubblico di una quanto mai
“simpatica” – effettivamente – partecipazione.
Margherita Lollini
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