La
“nostra” bislunga limonaia di Villa Baruchello somiglia a
una buffa fusoliera di aereo. Spettatori/passeggeri in fila per sei,
finestrini (apribili!) da cui vedi solo buio, tetto obliquo e nervato
come negli antichi aeroplani dalle ali di pezza, cabina di pilotaggio
con strumenti… musicali, tre piloti (“CRASH TRIO”, oddio) con
un comandante donna: Melissa Aldana. “Buona notte”, dice lei!
(poi altre informazioni in inglese, ma senza traduzione). “Volo”
quasi al completo, solo che per indole latina si parte un po’ in
ritardo, io seduto sull’ala (posto statisticamente sicuro, lo
sceglievo sempre).
Destinazione Cile: nella Santiago del
contrabbassista Pablo, poi a sud della Patagonia settentrionale,
nelle lande desertiche d’Acatama, al lago Lianquihue, alle cascate
del Petrohuè, all’isola di Pasqua… A tutto jazz. [Mmm, non
esisteva davvero una compagnia aerea di nome Jazz? Qua c’è pure
quel nuovo treno…]
L’inizio
(come tutti gli inizi, e come pure i decolli) pare poco convincente.
Per staccarci da
terra noi
abbiamo bisogno di qualche minuto, mentre quei tre già vanno forte,
a pieno regime e all’unisono: il batterista, chino e aerodinamico,
implacabile su piatto e rullante come un veloce metronomo; il
contrabbassista, pure lui, concentratissimo, a ritmo serrato su note
mai più distanti di una terza; e la “comandante”/sassofonista
che, come per scaldarsi, vuota interi sacchi di note a
tripla-quadrupla coda tutte legate tra loro. Potente fiume sonoro di
un intero campionario di scale fantastiche, fatte di corsa, con
precisione, senza indugi, senza affanno, senza cadere. Serviva per
andare in quota, sopra le nubi. Sarà un lungo volo nel Jazz.
Un
trio di formidabili solisti. Ognuno va per conto suo, apparentemente.
Ma i loro pensieri si cercano, i loro sguardi si incrociano. Fili
invisibili d’intesa perfetta. Francisco Mela, come un
quattrocentometrista a ostacoli cubano, sempre sciolto ed elegante,
sui piatti mi ricorda Ellade Bandini. Sul rullante inclinato di 30°
suona come un pianista, ricama anticipa danza “in sospensione”,
tra timpani e piatti (smontabili) che “friggono”. Dolcemente. Ho
sentito motivi arpeggi e accordi, da lui. Pablo Menares, cileno come
Melissa, anche lui formato alla “palestra del jazz” di New York,
contrabbasso del tutto fuori dagli angusti confini di strumento
d’accompagno (altro che le frustrazioni di Süskind…),
protagonista alla pari. In più Pablo è cileno, quindi il suo tocco
è anche morbido, caldo, affettuoso, autenticamente pop anche quando
le impossibili velocità di esecuzione potrebbero mettere in secondo
piano certe intimità. Melissa: già musicista in fasce. Me
l’immagino piccolissima con un sassofonino di plastica Bontempi. Il
padre musicista, gli studi, l’influenza della “scuola” di N.Y.,
le fortunate collaborazioni, la dedizione al jazz. Ma non è una
musicista costruita, lei pensa inventa e “comanda”. Una tecnica
splendidamente virtuosistica e talentuosa foderata di naturalezza.
Anche quando “lavorano” di brutto, le sue mani, le sue dita,
sembrano ferme e incollate al sax. M’aspetterei di vederle
rivestite d’oro come i tasti. Poi è una ragazzina: sul palco
gioca, non si dà arie, sembra perfino mimare gli affondi di una
tiratrice di scherma, quando cerca sublimi intese con Francisco, che
“si difende” dietro i tamburi roteando bacchette e spazzole. Ma
non lo infilzerà col suo sassofono. Insomma,
un “volo nel Jazz” imprevedibile avventuroso e leggero, ma chiaro
geograficamente: mai abbiamo pensato che non fosse Santiago la
destinazione (o la provenienza), anche se si è passati da New York…
P.S.
Sarà che dietro sul palco c’era un piano disoccupato, ma non posso
farci niente se in certi momenti ho sentito il bisogno di un Raf
Ferrari pianista in aggiunta al CRASH TRIO. Sì, un quartetto.
PGC
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