Giovanissimo,
l’ottantaquattrenne Gregoretti che sul palco del Teatro del Pavone
si lascia strapazzare, sornione e ironico, dal sulfureo duo Della
Casa-Mulas;
capelli lunghi, camicia rossa, vistose bretelle, e quella voce
immutata che se chiudi gli occhi lo vedi ancora trentenne (durante
l’intervista scherzerà su un “gli
ultraottuagenari a rischio è bene rimangano a casa”,
ascoltato la mattina in tv).
Scoppiettante
inizio, col siparietto dell’impagabile Efisio
Mulas (“attore
perennemente disoccupato di vaga origine sarda”)
dalla platea pirandellianamente in cerca del suo “autore”:
reclama d’aver penato per trovare ‘sta “RadioEuropa” (e lo
sconfortato Della Casa: “Pensavo d’averla depistata, signor
Mulas...”), d’essersi perso tra Abruzzo, Marche, Umbria, e Radio
Subasio e Radio Centro Suono e chissà che altre radio locali, ma che
adesso finalmente l’ha trovato il suo autore e quindi se lei mi
permette dottor Gregoretti, vorrei fare un provino con lei per il
film che sta girando, e quindi guardi, io salgo sul palco.
Ed
eccoli, i due buontemponi di Hollywood
Party,
alla destra e alla sinistra di Gregoretti, mentre sullo schermo alle
loro spalle scorrono senza sonoro le immagini de “Il Circolo
Pickwick”, sceneggiato televisivo da lui diretto nel ’68:
esperimento unico di sceneggiato in costume nel quale s’insinua un
personaggio in abiti contemporanei (lo stesso Gregoretti) nel ruolo
di “osservatore”. Di quelle scene in bianco/nero ci colpisce il
cast, stellare per la qualità degli interpreti; viene spontaneo e
impietoso il confronto con le odierne letali “fiction all’italiana”
e i loro interpreti da recita parrocchiale. Sembra impossibile ma è
stato vero, che un tempo mamma Rai sceneggiava fior di classici della
letteratura internazionale… A quell’epoca, ironizza Gregoretti, i
canali erano due, se non ti piaceva il primo passavi al secondo e se
neanche quello andava bene, spegnevi la luce e andavi a dormire tanto
il canone era già pagato (e non si evadeva).
Dice
del proprio ingresso in Rai il primo dicembre del ’53, e appena un
mese più tardi la RAI diventava ufficiale. All’epoca la figura del
conduttore televisivo - racconta - non era granchè ambita: io stesso
che facevo documentari, poco sapevo di cosa significasse apparire,
andare in onda in video e in audio. Fino a quella volta in cui,
impiegato di categoria C come dipendente del Tg, trovandomi alla
cassa accanto a Tito Stagno (sapete, quello che ha campato di rendita
sulla luna) sbirciando nella sua busta vidi che aveva diciottomila
lire più di me - era una cifretta, nel ‘58! - e al mio “Perché
tte ssì e io no?”,
Stagno spiegava “Perché io vado in onda”, e io “Allora
ci
voglio anda’ ppur’io
però
mi date pure a me l’indennità…”.
Già,
i soldi. A Mulas che gli ricorda la partecipazione come attore in
“C’eravamo tanto amati” con Scola ("canuto anche lui, ha
solo un mese meno di me") e con Sordi in “Amore mio
aiutami”,confessa che proprio per soldi ha anche fatto l’attore:
Eh
sì,
la
penuria è quella che ha dato il segno alla mia esistenza, dovevo
guadagna’ perché c’avevo cinque figli famelici…
Ed
eccoci a Ro.Go.Pa.G.
(“Laviamoci
il cervello”
doveva essere il vero titolo), nato mentre nasceva il nuovo cinema
italiano, erano gli anni Sessanta: film in quattro parti, ciascuna di
un regista diverso, e lui quarto di un gruppo di magnifici:
Rossellini, Godard, Pasolini. Macchè trust di cervelli, spiega
ironico e dissacrante, ognuno lavorava per i fatti suoi! Racconta
invece con gusto la storia di quel titolo: all’origine solo sigla
burocratica - con la sillaba iniziale dei 4 registi - che il
ragioniere della Arco Film usava per inoltrare la pratica al
competente Ministero, e tanto piaciuta poi a Rossellini che la volle
prepotentemente come titolo, solo che la sillaba del suo nome rimase
monca perché un RoGoPaGr
sarebbe
risultato troppo aggressivo, gli dissero. Primo film italiano sul
nuovo consumismo, di cui il nostro Paese viveva ancora i primi conati
quando già in America imperava la “stimolazione
di sentimenti superflui”.
E
poi il ’68, e quel film “Apollon,
una fabbrica occupata”
girato in una tipografia romana occupata per mesi dagli operai che la
difendevano contro la proprietà decisa ad eliminarla per speculare
sui suoli edificatori così ricavati e a mettere sul lastrico i 400
operai per i propri giochi finanziari. Furono gli stessi operai a
contattare l’ANAC, Ass. Naz. Autori Cinematografici (“Oggi
ribattezzata da noi Autori Canuti -
scherza - allora eravamo un
po’ giovani…”).
Ci chiesero un sostegno - racconta - che non sapevamo bene quale
potesse essere, e ci accordammo per un film a soggetto, un po’
documentario un po’ no. E nacque questo film che negli stessi
capannoni vuoti ricostruiva come su un set le fasi più drammatiche
dei 6 mesi di occupazione, improvvisando giorno per giorno il copione
sui ricordi degli stessi protagonisti (“Per esempio, ricostruivamo
un’assemblea infuocata, e chiedevamo e poi? che avete fatto? “e
poi… e poi se semo presi a bbotte”.
Ok, ciak, giriamo”). Film che veniva proiettato in scuole,
università, fabbriche occupate, comitati di quartiere. Anticinema,
tipico di quegli anni.
E
poi la satira fantascientifica di “Omicron”
- con Renato Salvatori e lo stesso Gregoretti fra gli altri - girato
a Firenze anziché a Torino (che pur non nominata sarebbe stata
riconoscibile) perché era “contro la Fiat” e lo sceneggiatore
Pestelli disse che Valletta l’avrebbe fatto “licenziare in
tronco” appena l’avesse visto. Film sullo sfruttamento classista
del proletariato, in un mondo di cui l’extraterrestre, calatovisi
dentro per preparare l’invasione della Terra, scopre le leggi e le
regole. “Un’opera profetica” dice Gregoretti.
Si
arriva ad oggi, al film che sta girando: tratto dal suo libro La
storia sono io (“Ho
scritto un unico libro, che è una mia autobiografia autosfottitoria,
presentazione del lato comico della mia esistenza”)
concepito già come una sceneggiatura. Quel titolo, spiega, dice che
ciascuno di noi è la Storia, noi la viviamo quotidianamente senza
troppo farci caso ma nel farne il bilancio ci rendiamo conto di
quanto essa sia presente nel nostro vissuto (“Per me - dice - è
stata la storia del Fascismo, che mi sono bevuto tutto, dai balilla
ai figli della lupa…”).
Tempo
scaduto: Gregoretti regista, attore, autore, sceneggiatore,
conduttore ecc. si congeda da Radio3 in festa e dal suo pubblico,
mentre la voce del vagamente sardo Mulas deciso a strappargli la
promessa di un provino - Se
insiste non glielo faccio né ora né mai… -
si perde nelle note dell’hollywoodiana sigla di Hollywood Party,
“la
ppiù ggrande trasmissione de la Rai dai tempi de Marconi!”.
Sara Di Giuseppe
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