Incrocio
il gregge (che è titubante se attraversare o no la strada) mentre
Radio3 manda Coleman in quartetto. Precedenza alle pecore, ovvio.
Quindi accosto, abbasso i finestrini, spengo il motore. E vorrei
scendere, ma Coleman stesso dapprima me lo impedisce. Un’incisione
forse del ’60 (vagamente country) con Charlie Hadel al
contrabbasso, nel super-silenzio musicale della maestosa conca di
Campo Imperatore, quando mi ricapita…
Così
aspetto, e mentre in concentrazione ascolto la radio contemplo questo
“nostro” desertico Far West inciso dal freddo: greggi,
fontane ed erbe (più
che fontane, laghetti),
sassi acuti, vento, solitudine immensa, il tacito infinito andar del
tempo…*
Poi, da un intorno vicino ma indefinito, come un canto.
Non di una voce. Sembrano note di flauto prodotte con la voce e il
vento; più note alte di clarinetto, ma senza clarinetto. Sono fischi
di pastore che lanciano comandi ai cani. Suoni complessi e precisi,
melodiosi o marziali, che in certi momenti “entrano” nel
quartetto e quasi vanno a tempo con Coleman e Hadel! Scortato da due
cani scuri, eccolo il pastore. Non ha né spartito né strumenti. Ma
camminando lento “suona“ e “canta” e scruta l’invisibile, e
pare dirigere il vento, la sua “orchestra”. Anche se, in
lontananza, i campanacci (di due sole note) delle mucche anche loro
ossessivamente al pascolo mettono un po’ di confusione… si sa,
alle mucche non piace il jazz.
I
cani-pattuglia in realtà sono 5, pastori abruzzesi doc e meticci un
po’ sofferti. Spettinati e attentissimi. Quando scendo, a turno mi
annusano, senza curiosità, senza ostilità, routine professionale.
Pipì rituale, tutti sulla stessa ruota, poi riprendono il “lavoro”.
Il pastore smette il canto e mi guarda, impassibile, senza
avvicinarsi. Ha tempo. Vuole che gli chieda qualcosa.
Ad
occhio meno di quarant’anni, colorito tibetano, vestito d’inverno,
sciolto parlatore nelle risposte. L’impreparato sono io, le mie
sono domande stupide, convenzionali. Vorrei chiedergli se interroga
la luna, quando è solo, ma mi guarderebbe strano. Dormo
su-sopra (io
non vedo niente, ci sarà un rifugio), però
“abito” giù,
Paganica,
ho macchina.
Moglie? Famiglia? No.
Qui sto
bene,guadagno,
quando viene neve
torno Romania.
Ah Ah. Più
chiaro di così. Sembra contento, quando mi aspettavo che si
lagnasse. Tue, le pecore? Nooo.
Quante sono? 97.
Perché tutte marchiate DS?
Padrone.
Vorrei fargli la battuta che i DS adesso si chiamano PD, che il
padrone dovrebbe aggiornarsi, a meno che le pecore non siano
vecchissime… Ma già non mi calcola più, ha sentito o visto
qualcosa, tanto che riattacca il “canto” con gli ordini, mentre i
cani velocizzano le 97 pecore che spingendosi attraversano e
riprendono - testa bassa - a brucare in automatico. Infatti ecco un
rumore di diesel, un fumacchioso punto verde che caracollando sale: è
un vecchio cassonato Iveco-Daily tutto ammaccato e di un inconsueto
verde-smeraldo. Dalla cabina scendono agili due figuri: cenni spicci,
autoritari, come dire lavora, non chiacchiera’. A me manco uno
sguardo. ZAC, finito l’incanto. Quando arriva il padrone…
Coleman
e Hadel non suonano più. Il canto diurno del pastore rumeno
continua, ma è meno jazz…
*G.Leopardi,
“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”
PGC
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