Un
“capriccio dolcemente robusto”.
Parole di Pasolini
che tornano alla mente davanti a questo film. “Il
gusto del dolce e grande manierismo che tocca col suo capriccio
dolcemente robusto le radici della vita vivente; ed è realismo.”
(La
Guinea, 1962)
Scamarcio/Ninetto
e Ninetto/Eduardo
stremati, uno carico di valigie, l’altro grande grosso e ormai
tutto canuto, riprendono fiato seduti su quella scalinata verso il
Paradiso che sembra non finire mai. Ferrara
gira scene del film mai girato da Pasolini.
Questa
poteva essere quella finale, dove il giovane dice al vecchio:
“La
fine non esiste. Aspettiamo … qualcosa accadrà…”
Non
c’è una fine, un incessante moto perpetuo trascina in avanti le
cose e gli uomini, e nulla c’è che somigli ad un racconto, si
procede a caso e senza coerenza. E allora può accadere che la Callas
si metta a gorgheggiare ricami rossiniani nel suo miracoloso
“Una voce poco fa”, fino all’ultimo titolo di coda:
Io sono docile,
son rispettosa,
sono ubbidiente,
dolce, amorosa;
mi lascio
reggere,
mi fo guidar.
Ma se mi toccano
dov'è il mio
debole,
sarò una vipera
sarò,
e cento trappole
prima di cedere
farò giocar,
farò giocar.
L’idea dell’uomo,
del poeta, del regista, del profeta ascoltato solo ai congressi
radicali, quell’idea che da 39 anni è nel ricordo e, se ancora si
può dire impunemente, nel cuore di qualcuno, è quella che pian
piano, scena dopo scena, si compone senza un ordine, pennellata dopo
pennellata fino al finale: un povero mucchio di ossa pestate e quella
faccia coperta di sangue mezzo nascosta nella polvere di quel mattino
livido di Novembre, all’idroscalo di Ostia.
La gente del posto,
vagabondi, operai, casalinghe, lo vede passando, ma senza troppa
meraviglia.
Si sa chi va lì di
notte, e qualcuno chiami il 113!
Chi è stato? Perché
è stato? Complotto? Inchiesta? Trame nere, rosse, verdi e amaranto…
Certo, uno se lo
chiede, e poi? Cambia qualcosa? Si è arrivati alla verità? E
quand’anche ci si fosse arrivati? Non era già tutto previsto, da
lui stesso, e da tanto tempo, almeno da Accattone e
Mamma Roma?
Pasolini.
Cronaca giudiziaria, persecuzione e morte (“in un paese
orribilmente sporco”) scrisse Laura Betti poco anni dopo
la sua morte, e tutto fu chiaro (e la prefazione di Moravia
sarebbe da imparare a memoria). Il resto del bla bla bla è
solo nota a margine.
E
adesso c’è Abel Ferrara che non ha l’aria di uno che vuol
fare il grande film, non pensa a sè, pensa a lui, al regista che
diceva al fedele cugino Nico, agli amici, ai colleghi: “Devo
fare quel film, al più presto”. E apre con Salò,
la summa pasoliniana.
Ferrara
ha un grande merito, ama Pasolini e lo guarda con dolcezza.
Pensa all’uomo contro, che non si rifiutava mai di scandalizzare
perchè rifiutava di essere un moralista, al profeta inascoltato che
stava preparando un intervento al congresso dei Radicali, l’unico
posto al mondo in cui lo ascoltavano sine ira et studio (che,
in soldoni, significa senza piaggeria e ipocrisia post mortem
e senza la solita rabbia fascista dura a morire ancor oggi).
Ferrara
pensa a Pieruti che la dolcissima mater sveglia al mattino, al
ritorno dai suoi viaggi, la vecchia madre che forse un giorno avrebbe
dovuto lasciarlo per sopraggiunti limiti di età e…
ti supplico, ah, ti supplico: non
voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Pensa
a quella Roma che a Berlino definiscono “la storia d’amore più
importante di Pasolini”, ed è vero, sono in due, lui e
Fellini, venuti da lontano e nati di nuovo in quella grande
placenta che li ha avvolti e non di rado anche respinti.
Uno
l’ha ucciso.
E
di Roma Ferrara fa inquadrature dechirichiane di algida
definizione e geometrica purezza, inquadra di traverso sullo sfondo
azzurro e bianco del cielo il Palazzo della
Civiltà Italiana con le sue orbite vuote e insensate, ci fa leggere
ben bene la scritta sulla sommità:
“Un
popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di
scienziati di navigatori di trasmigratori”
Un
popolo che ha bisogno di eroi,
direbbe piuttosto con un bel ghigno
Herr
Bertolt se
fosse qua, e poveri noi che ancora pontifichiamo su chi fu e come e
perché fu ucciso Pasolini.
Ce
l’ha detto Moravia,
nella prefazione di cui sopra:
“Pelosi
e gli altri come lui sono stati il braccio che ha ucciso Pasolini; ma
i mandanti del delitto sono una legione, in pratica l’intera
società italiana”.
Ferrara
rispetta Pasolini,
e così non ne fa un santino nè un martire, nessuna ricostruzione
biografica né ricerca di particolari inediti. Ci fa vivere con lui
l’ultimo giorno, e notte.
Le tonalità calde e
intime di un interno tipicamente borghese anni ’60, quello
dell’appartamento all’EUR con vista sulla cupola di San Pietro e
Paolo, comprato quando arrivò il benessere dopo tante tribolazioni,
lo avvolgono in una tiepida tana con la madre e la cugina, il fedele
Nico Naldini e Laura Betti, che arriva frusciante dalla
Serbia e porta musica dei Balcani.
Un frammento di
un’intervista famosa di Furio Colombo, un abbraccio a
Ninetto che da poco ha avuto un figlio che PP stringe
incantato, e poi scende la sera, e con la sua macchina di media
cilindrata resta solo, con la sua disperata voglia di essere al
mondo, nonostante tutto.
E la morte, il
pestaggio, insensato, fascista, omofobico, realistico fino all’ultimo
soffio di vita, perché non puoi girare la mdp dall’altra parte per
paura del sangue e lo devi far vedere l’uomo che resiste, si
ribella, fugge, cade, come diceva, esattamente come diceva:
La mia corsa non
è una
cavalcata ma un
essere
trascinato via
con il corpo
che sbatte sulla
polvere
e sulle pietre.
Ferrara cuce
inserti di vita e di poesia, di quotidianità e straordinarie
incursioni intellettuali fra Scritti
corsari e Petrolio,
in un patchwork privo di un filo
conduttore che non sia un tendere inesorabile verso la morte,
annunciata, preparata come un vizio
assurdo.
Amava
Sandro Penna,
PPP,
e lo dice chiaro che a Stoccolma avrebbero dovuto dare a lui il Nobel
invece che a Montale.
Forse,
quando si copre la fronte con la mano e Ferrara
lo inquadra in primissimo piano, c’è questo verso dell’amico a
fargli compagnia:
Io
vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita.
Un
film a suo modo leggero, che si guarda fino alla fine con tristezza e
gioia insieme, chi ama Pasolini non può che provare questo. Nella
sua semplicità tocca il fondo dell’”essere Pasolini”,
siamo nell’ottica indicata da
Schrader
quando parla di de-spettacolarizzazione. Inoltre, quale miglior
coerenza con il personaggio che adottare il suo stile, noto per
essere quello della “contaminazione” : la vita quotidiana con la
sua banale normalità e quelle “ierofanie” che la costellano e ne
fanno ogni volta un miracolo, molto umano. Come quel Mantegna
che sovrapponiamo al ragazzo morto sul letto di contenzione di Mamma
Roma e
lo fanno diventare un Cristo morto. Come il Coro finale della
Matthäus Passion
che ormai ci fa esclamare “E’
Pasolini!” e la missa
luba con le sue tonalità così allegre, sanguigne,
terrene.
Ferrara ci
restituisce un Pasolini autentico, reale e irreale, il suo
ultimo giorno e i suoi pensieri di una vita, con la sua sete di
esplorare mondi, partendo dal Quarticciolo e dalle baracche del
Pigneto o dagli alveari dei palazzinari di Casal Bruciato, fatti per
la piccola borghesia illusa nel progresso, per finire nella mitica
Colchide o fra i ghirigori di un Oriente da favola, a sfiorare con
tocco gentile la bellezza di un mondo archetipico o la sensuale,
arguta laicità medievale di sette donzelle e tre gentili cavalieri.
E infine l’angoscia
del risveglio a Salò, edizione riveduta e molto
corretta di dame e cavalieri, per dire quel che c’era da dire sul
rapido dietrofront di millenni fatto dal cammino dell’uomo nel
secolo appena trascorso.
Il
sacro entra in contatto con il profano, la bellezza si deturpa nella
volgarità, per quindici anni, o qualcosa meno, il cinema è
stato il suo mondo, è giusto che sia un film e ricordarcelo.
Con i suoi film
disse al mondo com’era e Bach fu la sua anima:
…una
lotta, cantata infinitamente, tra la Carne e il Cielo, tra alcune
note basse, velate, calde e alcune note stridule, terse, astratte...
come parteggiavo per la Carne! Come mi sentivo rubare il cuore da
quelle sei note, che, per un’ingenua sovrapposizione di immagini,
immaginavo cantate da un giovanetto. E come, invece, sentivo di
rifiutarmi alle note celesti! È evidente che soffrivo, anche lì,
d’amore; ma il mio amore trasportato inquell’ordine
intellettuale, e camuffato da Amore sacro, non era meno crudele.
E’
la colonna sonora del film di Ferrara,
quale migliore epitaffio?
“Wir setzen
uns mit Tränen nieder, und rufer dir ihm Grabe zu: Ruhe sanfte,
sanfte Ruh! Ruht, ihr augesognen Glieder! Euer Grab und Leichenstein
Soll dem ängstlichen Gewissen ein bequemesRuhekissen und der Seele
Suhstatt sein, hochst vergnügt Schlummern da die Augen ein”
“Fra
le lacrime ci sediamo e a te nella tomba diciamo: riposa dolcemente,
fa’dolce riposo! Riposate, membra dissanguate, riposate dolcemente,
riposate bene. La vostra tomba e la vostra pietra sepolcrale saranno
per la vostra coscienza tormentata dai rimorsi un soffice cuscino, e
per le anime un luogo di riposo. Là gli occhi si chiudono in somma
beatitudine” (trad. di Magaletta,
1997)
Paola
Di Giuseppe
Pasolini
Italia,
Francia, 2014 durata: 90'
Regia:
Abel Ferrara
Interpreti:
Willem Dafoe, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande,
Maria de Medeiros, Adriana Asti, Valerio Mastandrea, Roberto Zibetti
Distribuzione: Europictures - See more at: La
fine non esiste. Aspettiamo … qualcosa accadrà…
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