Forse
nessuno meglio di un filosofo torinese come Maurizio
Ferraris avrebbe
potuto guidarci, con eleganza umorismo e ironia, dentro
quell’ilaro-tragedia
che
fu l’esistenza di Nietzsche il quale, nei suoi viaggi di apolide
attraverso Germania, Italia, Svizzera, proprio a Torino soggiornò
amando quella città con entusiasmo (a partire dalla cucina: la
migliore, per lui, quella piemontese). E’ questa una delle
“prossimità” con Nietzsche su cui Ferraris scherza prima di
inoltrarsi nei temi della comicità e dell’orrore; l’altra, più
curiosa, è il suo “incontrare” Nietzsche almeno due volte
l’anno, quando visita lo studio del proprio commercialista, nello
stesso appartamento in cui nel 1888 il filosofo scrisse Ecce
homo.
Muove
dunque da Torino questo viaggio nella biografia nietzscheana, segnata
negli anni della follia da scritti di involontaria comicità e dall’
“orrore di chi cade vittima dei miti da lui stesso creati”. Qui
il soggiorno del filosofo, iniziato in un edificio di Piazza S.Carlo,
è celebrato da una targa del 1944 di grondante retorica fascista:
curiosa ironia, per un pensatore che gli anni ‘60 e ‘70 vollero
considerare di sinistra, manipolazione ideologica al pari della
nazificazione degli anni Trenta che ne fece un corifeo del nazismo e
che propaga nel tempo i suoi effetti. Il soggiorno torinese è anche
quello segnato dall’inizio della malattia mentale, manifestatasi
clamorosamente nel 1889 con l’episodio - forse manipolato in parte
- del cavallo maltrattato e da lui difeso e abbracciato [ma
anche oggi, e senza essere Nietzsche, si è presi ahimè per matti se
ci si scalmana in difesa di animali maltrattati n.d.a].
Nietzsche
morirà undici anni dopo, celebre come aveva preavvertito nei propri
deliri: “Tra
i miei ammiratori ho solo nature elette”
scriveva da Torino alla madre, e chissà se presagiva il postumo
omaggio dello straussiano poema sinfonico Also
sprach Zarathustra Op.30,
e il potente dannunziano secondo libro delle Laudi con quel “Per
la morte di un distruttore”
a lui espressamente dedicata; o addirittura l’improvvisata ode di
Jim Morrison nel ’68 prima di un concerto a Saratoga… Pazzo e
celebre, dunque, a conclusione di un’esistenza che fu “tragedia
vera e commovente”.
Da
qui dunque il percorso nietzscheano tracciato da Ferraris si muove
tra l’epistolario, segnato dalla comicità visionaria della follia
(“Quel
che nuoce alla mia modestia è che
in
fondo io sono tutti nomi della storia”
e “Alessandro
e Cesare sono le mie incarnazioni”)
e dalla riflessione sulla propria esistenza: ne emergono, soprattutto
attraverso Ecce
homo,
i tratti di un pensiero profetico e apocalittico che chiama il
filosofo a definire il suo ruolo in un mondo che “fra un paio
d’anni” - dice - sarà in convulsioni (la tragedia del 1914 è
prevista con largo anticipo: “…molte
cose che facevano parte di noi devono morire in questa transizione”).
La riflessione su di sé, che diviene indagine sull’esistenza umana
in generale, delinea la necessità di precisare il suo essere ("Io
non innalzo nuovi idoli, gli antichi forse potrebbero imparare da me
che cosa significhi avere i piedi d’argilla. Rovesciare gli idoli -
così io chiamo gli ideali - ecco il mio compito"),
il diritto a non esser preso per ciò che non è ("…
soprattutto
non prendetemi per un altro"),
la certezza che un giorno il suo nome si riconnetterà a qualcosa di
terribile, a una “profonda
collisione della coscienza”
che scardinerà come una sentenza inappellabile tutto ciò in cui si
è creduto: “Io
non sono un uomo, sono dinamite”,
finirà per dire, consapevole al tempo stesso del rischio d’esser
preso per un fondatore di religioni (“Non
voglio credenti, non parlo alle masse, ho paura che un giorno mi
facciano santo").
Dal
rifiuto di essere “preso per un altro” al cercare sempre di
“prendersi per un altro” ("Io
sono tutti i nomi della storia"):
ambiguità che Ferraris rintraccia in immagini-culto della modernità
come il fumettistico Superman e il suo doppio Clark Kent, o come
Zelig il trasformista identitario di Woody Allen: non a caso il
regista è anche autore di un “Così mangiò Zarathustra” parodia
dell’opera nietzscheana e di alcuni punti cardine di questa come il
mito dell’eterno ritorno (“Il
potente si nutrirà di alimenti ricchi, mentre i deboli
spilluzzicheranno germogli e tofu, convinti che la loro sofferenza
gli rimeriterà un al di là piene di cotolette d’agnello alla
griglia, ma se è vero l’eterno ritorno mangeranno tofu fino alla
fine dei tempi”).
La follia che sprofonda l’individuo nel naufragio dei propri stessi
miti è l’orrore che accomuna Nietzsche a figure ugualmente
tragiche segnate dalla follia, come a Salgari, che proprio a Torino
morì suicida scegliendo orribilmente di fare Harakiri; alcuni
passaggi dell’epistolario farneticanti di passione per Cosima
Wagner - che Nietzsche chiama Arianna - ricordano molto da vicino il
delirante amore di Sandokan per Marianna (colpisce l’assonanza dei
nomi). E’ una comicità “intrisa di spavento”, è l’orrore
preveggente del “pensiero abissale”, del mito dell’eterno
ritorno in un mondo dominato dalla volontà di potenza (l’ameba,
sostiene Nietzsche, si divide in due per realizzare la propria
potenza): dev’esser vero, se - come illustra fotograficamente
Ferraris - la sorrentina Villa Rubinacci dove Nietzsche soggiornò
dopo la definiva rinuncia al suo amore per Cosima, dove scrisse il
suo “Umano
troppo umano”,
e dove litigò definitivamente con Richard Wagner per aver questi
offeso l’amico filosofo Paul Rée chiamandolo pidocchio… ebbene
questa stessa Villa è oggi rinomato matrimonificio per mafiosi…
Se
dunque la
vita e la fortuna di Nietzsche esercitano, oggi come ieri, una
”immediata seduzione romanzesca”, proviamo a chiederci - osserva
Ferraris - che cosa sarebbe stata la sua fortuna se avesse continuato
a insegnare filologia a Basilea, se avesse sposato Lou Salomé, se
fosse morto a ottantanni ecc… No, non sarebbe stato lo stesso: egli
è stato al contempo grande “stilista” e grande “pulcinella”
della filosofia: carattere che è in parte in ogni filosofo ma che in
lui si è realizzato in quantità esorbitante. “L’iperbole è il
suo stile” conclude - applauditissimo - Maurizio Ferraris. Molti e
alti gli aspetti e i temi del pensiero nietzscheano toccati dal
filosofo in questa Lectio e trattati con profondità e leggerezza,
certo più numerosi di quelli sommariamente qui condensati e scelti
tra i più “spettacolari”. E chissà se nel sentir parlare di
volontà di potenza e di eterno ritorno e di ameba che divide se
stessa in due ecc… un sottile disagio - ammesso che abbian capito -
avrà attraversato il gruppone di notabili e “Colonnelli” che,
non paghi di arrivare in abbondante ritardo, hanno accettato (come
fosse normale) che si creasse rapidamente per loro una “nuova”
prima fila di sedie sotto il palco: in tranquillo non cale di chi è
arrivato con largo anticipo per sedere “davanti” e non perdere
neanche una sillaba della Lectio. Mah!... mi diverte immaginare quel
che ne avrebbe detto Nietzsche…
Sara Di Giuseppe
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