*Veramente
seria è la questione che devo esporvi, miei buoni amici, e il
discorrerne mi è molto penoso. Sento persino vergogna per essere
nata di questi tempi in questo Paese, quando vedo che quel popolo un
tempo dominatore di gran parte delle terre, si fa menare attorno
secondo il capriccio di un ragazzo; per essere nata in questo Paese
dove uomini di tant’alto ingegno, rinomati per età e saggezza,
riescono a riconoscere, ma invano, la schiavitù che si sono
procurati, senza avere il coraggio di liberarsi di essa. Non esito
perciò ad ammettere in tutta sincerità che i costumi dell’età
nostra hanno tanto tralignato dalla virtù dei nostri avi, che se
quelli tornassero a vivere rifiuterebbero di vedere in noi i loro
discendenti: perché essi hanno fondato, conservato, accresciuto
questo nostro Stato con onestà di costumi e santità di leggi e con
istituzioni adeguate al fine della felicità della vita.
Ora
invece, come vedo, proprio di quelle leggi si fa generalmente tanto
poco conto che non c’è nulla al mondo di più umiliato e
trascurato, mentre il loro posto è occupato dall’arbitrio di pochi
e disonesti cittadini. Forse non sappiamo che il principale
fondamento della libertà è l’eguaglianza dei cittadini? E’
proprio questa infatti che si esige innanzi tutto, e che ciascuno
veda rispettati i propri diritti al riparo dalle altrui offese; ma in
che modo siano mantenuti da noi questi princìpi, potete giudicarlo
da voi stessi, e un’altra cosa potrei ricordare non senza grande
dolore: nessuno ha il coraggio di opporsi, con la parola o col voto,
al parere di qualche potente. Eppure una volta era tanto splendida
nel nostro Paese l’applicazione della giustizia e del diritto, che
a Firenze, ad esempio, si mandavano a dirimere le controversie fin
dai confini del mondo. Ora, invece, le dispute vengono decise dopo
lunghissimo tempo, a prezzo di grandi spese, tra i più vasti
intrighi e con molte corruzioni o coi favori dei potenti, cosicchè
molto spesso ottiene favorevole sentenza non chi prevale in diritto
ma chi è superiore in potenza.
E
perché dovrei confrontare io con il silenzio del giorno d’oggi,
quell’antica piena libertà di parlare in Senato e davanti al
popolo? In essa si manifestavano chiaramente la finezza
dell’intelletto, l’eleganza dell’eloquenza e la grandezza
dell’amor di patria dei singoli cittadini, quando sulle proposte di
attuazione discutevano persone autorevoli, esaminando le ragioni
favorevoli e quelle contrarie in modo da scoprire facilmente quale
verità si trovasse in ciascuna di esse. Perciò raramente si
sbagliava nel procedere a una deliberazione e la decisione, una volta
presa, non veniva subito mutata in senso opposto per sopravvenuti
pentimenti.
Ora,
invece, che i nostri Catoni per deliberare sugli affari della massima
importanza si valgono del consiglio di pochissime persone, vediamo
che per lo più si decidono cose che il giorno dopo quelle stesse
persone, forse richiamate all’ordine da altri, stabiliscono doversi
fare in modo del tutto diverso. Ora, infatti, un esiguo numero di
temerari, con la loro tipica insolenza e forti dell’indifferenza
degli altri cittadini, arrogano a sé soli quello che è un diritto
di tutti, e tutto viene stabilito dal loro insensato e ambizioso
capriccio.
Perciò
quella bellissima formula pronunciata dall’araldo, che di solito si
udiva nelle assemblee e tanto ampiamente è celebrata da Demostene,
quella formula con cui viene data facoltà di parlare a chi lo vuole,
ora per lo più è taciuta oppure, quando la si proclama, tutti
capiscono che si tratta solo di un suono senza significato, perché
nessuno osa chiedere un parere o parlare apertamente.
Anche
nella scelta dei governanti, oggi vediamo che non si scelgono uomini
che si distinguano per saggezza e per nobiltà, ma si scelgono i
cortigiani di potenti cittadini, o i ministri dei loro sfrenati
piaceri. Ne viene che l’autorità dei politici è quanto mai
ridotta o piuttosto inesistente, perché coloro che avrebbero il più
grande interesse ad esercitare le magistrature, agitati da quello
sdegno che è proprio degli uomini liberi, si tengono lontani dalle
cariche pubbliche e così viene offerta a pochi disonesti
l’opportunità di devastare e di fare a pezzi lo Stato.
Ed
ormai, questo Falaride
fiorentino
è arrivato a tanta tracotanza da non esitare a considerare non
benefìci ma servigi a sé dovuti di diritto, i benefici che ha
ricevuto nei suoi momenti difficili. Ora, se io rifiutassi di
adulare, di lusingare, di servir umilmente, insomma, quest’uomo,
chi potrebbe censurare questa mia decisione?
Saretta de' Giuseppini
*Libero
saccheggio da
Alamanno
Rinuccini, Dialogus de libertate, libro I, 1479
Trad.
Salvatore Rizzo
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