Che
ci sia, soprattutto fra gli studiosi della generazione degli anni
Cinquanta/Sessanta, un atteggiamento di velata condiscendenza, quando
non di aperto disprezzo, verso i romanzieri odierni non mi pare
contestabile; e basterebbe, del resto, leggere anche solo i titoli
dei libri licenziati da alcuni dei nostri critici più in vista, da
Berardinelli con il suo Non incoraggiate il romanzo, passando
per La Porta (Meno letteratura per favore!) fino a Ferroni
(Scritture a perdere), per rilevare i termini del problema.
Perché di problema - e credo non irrilevante - si tratta. Capisco
fin troppo bene lo scoramento presente, e sono forse persino
d’accordo con Berardinelli quando
malinconicamente nota come il genere romanzo sia diventato, ormai,
«più merceologico che letterario»;
capisco fin troppo bene lo smarrimento di chi, di fronte alla immensa
mole di di romanzi e romanzetti, best-seller e long-seller,
«scritture» e raccontini spacciati da
opere che sono il pane quotidiano del mercato dell’editoria,
fa fatica ad orientarsi.
L’arte - ha scritto Antonio Franchini in quel libro bellissimo e incategorizzabile che è Cronaca della fine - «spiazzata, decontestualizzata, messa in mezzo a un cumulo di macerie non sempre vi sfolgora; più spesso vi sta come scaglia di maceria nel monte di macerie». Indubitabilmente siamo sul monte di macerie, di macerie siamo circondati e sommersi: il compito del critico militante non è forse mai stato così pieno di insidie, così spiazzante. Eppure, se non vogliamo che la critica si riduca alle tristi (e spesso capziosamente eterodirette - ma questo è un altro discorso) notarelle dei lettori di Amazon e similia, possiamo e dobbiamo infilarci lo scafandro, armarci di una buona pila, e immergerci nella massa nera. E ritornare in superficie con i nostri piccoli tesori luccicanti. Perché di questo sono convinto: un atteggiamento critico condiscendente o aprioristicamente chiuso nella celebrazione di un’età dell’oro perduta significa – né più né meno – una resa.
L’arte - ha scritto Antonio Franchini in quel libro bellissimo e incategorizzabile che è Cronaca della fine - «spiazzata, decontestualizzata, messa in mezzo a un cumulo di macerie non sempre vi sfolgora; più spesso vi sta come scaglia di maceria nel monte di macerie». Indubitabilmente siamo sul monte di macerie, di macerie siamo circondati e sommersi: il compito del critico militante non è forse mai stato così pieno di insidie, così spiazzante. Eppure, se non vogliamo che la critica si riduca alle tristi (e spesso capziosamente eterodirette - ma questo è un altro discorso) notarelle dei lettori di Amazon e similia, possiamo e dobbiamo infilarci lo scafandro, armarci di una buona pila, e immergerci nella massa nera. E ritornare in superficie con i nostri piccoli tesori luccicanti. Perché di questo sono convinto: un atteggiamento critico condiscendente o aprioristicamente chiuso nella celebrazione di un’età dell’oro perduta significa – né più né meno – una resa.
Guardiamo
dunque alla produzione letteraria con spirito laico e consideriamo i
libri come prodotti dell’uomo
nel tempo e non in un immaginario iperuranio; praticare (e
promuovere) una critica «laica»
significa innanzi tutto sottrarsi alla logica perversa (e ampiamente
sfruttata a fini commerciali) del
«capolavoro».
E dunque: critichiamo pure senza pietà
quei libri che sono
fatti dal e per il mercato, o dimentichiamoli, ma occupiamoci
seriamente e senza pregiudizi di tutti quelli che al contrario
rimangono fedeli – con esiti alterni ma da valutare di volta in
volta – al loro fondamentale compito ermeneutico. Chiediamoci, e
continuiamo ad indagare, quali siano i romanzi che aprono la
possibilità di una conversazione sul nostro abitare il mondo.
(Quella conversazione che, come già ricordava il Leopardi del
Discorso, è pur misera cosa, nondimeno è l’unico
fondamento rimasto, dopo la fine delle illusioni, per la costruzione
di una società,
e della sua morale). Questa, e non altra, è la funzione necessaria e
indispensabile della critica, la sua funzione civile ed etica:
valutare, scegliere, aiutando così la disseminazione di idee e –
lo dico senza paura di apparire naïf
– di bellezza.
***
Medio
occidente è senza dubbio uno di questi piccoli tesori che è
possibile trovare tra le macerie; un romanzo insieme profondamente
radicato regionalmente (si vedano ad esempio le descrizioni, concrete
ed esatte, dell’alta borghesia padovana, dove il Veneto funziona
però da metonimia del paese intero), e insieme di respiro
immediatamente internazionale. Chiuppani si muove con eguale
naturalezza - e con una grazia davvero rara - tra i capannoni della
provincia veneta e il suq al-Hamidiyyeh di Damasco; tra Venezia -
«più orientale di un museo islamico» eppure sempre e comunque
diversa, con l’acqua viscosa della laguna «non azzurra come quella
di Beirut» - e i «palazzi color ocra, anneriti dallo smog»
prospicienti il monte Quassyum dell’esclusivo quartiere Abu
Roumaneh.
Come
la sua protagonista Patrizia, anche Chiuppani applica una visione
selettiva che è «una specie di esercizio spirituale, una forma di
ascetismo» che porta a notare «il diverso nell’identico»; come
ogni viaggiatore, anche Chiuppani misura l’ignoto attraverso il
metro del noto ma, adottando di volta in volta i diversi sguardi dei
suoi due protagonisti Patrizia e Farouk, «uccide ogni esotismo» per
riconoscere anche l’identico (o il simile) nel diverso: da un punto
di vista geografico e architettonico (ad esempio, l’arrivo a
Venezia di Farouk con un paesaggio che si apre verso pianure e monti
e che ricorda «quello che dalla città siriana si apriva verso le
verdi valli del Libano»), ma anche da un punto di vista morale e
solo in seconda istanza politico: la constatazione - con grande
delusione di Farouk, «l’unico arabo illuminista dell’universo»
- dell’evidente incapacità, per gli uomini di ogni latitudine, di
condurre la propria vita secondo una morale razionale; una morale,
verrebbe da dire, Kantiana, secondo la quale, appunto, l’uomo è
sempre trattato come fine e non come mezzo, e nella quale gli istinti
bruti sono se non dominati certo sempre addolciti dalla riflessione e
da quel sentimento di naturale e originaria simpatia così largamente
teorizzato nel Settecento (ad esempio, da Hume nel Trattato sulla
natura umana e ancora da Smith nella Teoria dei sentimenti
morali); una simpatia o compassione di cui «nemmeno il più gran
furfante […] è del tutto privo» (Smith) e che funziona - o
meglio: dovrebbe funzionare - come cemento della società
degli uomini. La somiglianza tra occidente e oriente, tra
l’irrazionalità e la corruzione siriane e la corruzione italiana
che Farouk tocca con mano nel cantiere edile dove lavora, raggiunge
il suo apice durante la visita a Venezia e nel discorso - che è già
un discorso d'addio - che il damasceno fa a Patrizia; un discorso nel
quale somiglianze architettoniche, politiche e morali si uniscono in
un crescendo vertiginoso: «la città dei decori e dei canali che gli
si stendeva davanti agli occhi poteva veramente esser stata
immaginata da un arabo come lui»; e ancora:
Se
soltanto avesse potuto trovarsi un lavoro dignitoso, se almeno il
cantiere non l’avesse
tradito a quel modo! Lui voleva soltanto lavorare, lavorare e amare,
e nemmeno aveva potuto capire quale fosse la famiglia della sua donna
– possibile che ancora non l’avesse
presentato a suo padre! Almeno questo doveva poterlo ottenere!
[…] “Ma io l’ho
capito”: lo disse a voce alta senza
quasi averne coscienza e lei si girò attenta, con un sorriso
sforzato che le segnava il volto, “che si vergogna che sua figlia
stia con un immigrato. Dico, tuo padre”. Di colpo terribilmente
seria, gli istanti passavano senza che riuscisse a rispondergli.
Povera donna, possibile che dovesse ferirla ancora?
“Ma, no, non si tratta di questo... È solo che
sei molto diverso dalle persone a cui lui è abituato; è solo una
questione di tempo. Vedrai che un giorno vi conoscerete... Io ho
cercato…” “Ma no
Patrizia, sono anche troppo simile”.
Il
nucleo fondamentale di Medio occidente
è questo atto d’amore per una civiltà umanistica vagheggiata e
perduta, così in Siria come in Italia: «possibile - si chiede lo
sperduto protagonista a Venezia - che quel senso d’identità
rimanesse così forte nonostante la distanza che divideva Siria e
Italia?» Ovunque i valori della «modernità secolare e illuminata»
sembrano irrecuperabili, negati e vilipesi:
Comunque
stessero le cose quello che era certo, si diceva, era che non aveva
più senso pensare che la modernità
di cui aveva sognato avrebbe potuto
fornire l’orizzonte
storico di sviluppo del suo paese. Ormai non era più uno dei motori
della storia, sembrava non fosse più attiva nemmeno in uno dei paesi
che avevano più contribuito a formularla. I valori che era cresciuto
ammirando erano anche in Italia residui di un idealismo
anacronistico.
Medio
Occidente, però, non si ferma alla semplice
riprovazione: il percorso di Farouk è anche un percorso di
formazione, una progressiva (e dolorosa) educazione del pensiero alla
complessità che nega ogni soluzione semplice e immediata. Chiuppani
lo sa: c’è una faccia nera della razionalità stessa che non può
essere elusa. Incapace di accogliere l’impurità,
l’imperfezione, l’eterogenesi, il pensiero razionale corre sempre
il rischio di tramutarsi in pensiero astratto e impersonale. È
Farouk stesso a comprendere, iuxta Horkheimer
e Adorno, come la razionalità moderna sia diventata soprattutto
strumento di dominio. Quale, dunque, la soluzione possibile? Nel
reportage sui Cabili del 1939, Albert Camus scrisse che «costituisce
sempre un progresso il fatto che un problema politico venga
sostituito da un problema umano»; in modo molto simile, anche
Chiuppani sembra infine abbandonare ogni ideologia - anche
l’ideologia di una civiltà umanistica ormai inattingibile - per
ritornare alla vita concreta e irriducibile del singolo essere umano:
«mentre l’autobus
usciva dal centro pensava a quello che per entrambi quel viaggio
incrociato sarebbe potuto essere se il proprio atteggiamento fosse
stato diverso, se avesse rispettato non tanto le ragioni ma la vita
stessa di Patrizia. L’incidente
gliene presentava un’evidenza
irrefutabile: né Patrizia né nessun altro si sarebbe mai potuto
adeguare a un principio». Farouk scopre allora che non c’è
ragione ma sempre ragioni: plurali, imperfette, zoppicanti ma
concrete e vive. Prima di ogni società migliore da costruire (la
«Primavera Araba» fa da sfondo alla narrazione), prima di ogni
ideale di razionalità, il compito dell’uomo è il rispetto della
particolarità della vita di ogni individuo: «l’uomo - ha scritto
Primo Levi in Monumento ad Auschwitz -
è, deve essere, sacro all’uomo». Ed è proprio questa morale
minima, fondamentale e fondante ad essere negata, secondo Chiuppani,
dalla società capitalistica odierna. Farouk arriva infine a
comprendere come il fallimento dell’Italia, con la sua corruzione,
le sue libertà mancate, la crescente sperequazione economica, sia in
realtà lo specchio di un fallimento più profondo e (forse)
definitivo dello stato moderno in quanto stato capitalista:
«l’America - riflette Marco, un personaggio secondario che
acquista però qui un’importanza cruciale, […] quella sì è la
modernità,
la società capitalista
più avanzata al mondo, eppure se pensi che possa offrire una
soluzione ti sbagli, lo stato moderno fallisce nel suo fallimento,
come da noi in Italia, e anche nel suo successo». Ho
voluto mettere immediatamente in risalto la densità
teorica di Medio occidente
per mostrare come esso sia, al suo cuore, quello che un tempo si
sarebbe chiamato un ‘romanzo di idee’; ma Medio
occidente è anche molto altro: è una
delicata storia d’amore, narrata con finezza e pudore; è uno
specchio della nostra vita qui e ora, con tutte le sue
contraddizioni. Soprattutto, Medio Occidente
è un romanzo nel
quale sono sempre gli eventi concreti, spesso «avventurosi» della
trama - una trama essenziale ma non esile - a fornire lo spunto per
la riflessione: protagonista è la vita e non una sua astrazione.
Questa è la sfida che Chiuppani, in questa sua prima prova, accoglie
e vince: riuscire a fare del plot una
peculiare forma di conoscenza.
Raffaello Palumbo Mosca
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