Il
25 settembre 2014, a trent'anni dalla morte di François
Truffaut, è uscita nelle sale di poche
città italiane la versione restaurata da Mk2 e distribuita dalla
Cineteca di Bologna, in collaborazione con BIM, di Les
400 coups .
Mai
svanito dalla nostra memoria, resta comunque un’esperienza unica e
fortunata vedere questo capolavoro su grande schermo.
E, a proposito di fortuna, ricordiamo le parole di Truffaut:
E, a proposito di fortuna, ricordiamo le parole di Truffaut:
“Ho
avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica
volta, un sabato pomeriggio del 1946, al Sèvres-Pathé grazie
al cine-club La chambre noir animato da André Bazin e altri
collaboratori di “La Revue du Cinéma”.
Entrando
in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo, ma fui preso
immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che
tutta insieme non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione.
In principio ho avuto più simpatia per Zéro de conduite,
probabilmente per identificazione avendo solo tre o quattro anni più
dei collegiali di Vigo […] Niente di ciò che si è mostrato sullo
schermo nei successivi trent’anni ha eguagliato in questo campo
l’immagine della mano grassa del professore sulla piccola mano
bianca del ragazzo in Zéro de conduite”
(da F. Truffaut I film della mia vita ,
Marsilio, 1978, passim)
La
mano grassa del professore…
Ci
sono minuscole particelle che si staccano da un corpo e s’innestano
in un altro, fotogrammi in volo libero, frammenti aguzzi che
s’impiantano nella carne viva a generare altra vita.
Zéro
de conduite sta a Les 400 coups come il
polline sta allo stigma, impossibile immaginare Antoine Doinel senza
Caussat, Colin, Briel e Tabart, i quattro enfants terribles
che rivoluzionarono a colpi di cuscino e guerra dei fagioli il severo
collegio del Signor Censore.
La
loro scalata al cielo avvenne 27 anni prima della corsa verso il mare
di Doinel, il tetto del collegio fu il trampolino del loro volo verso
la libertà. Da lì, chissà, forse si vedeva anche il mare, di lassù
sfumavano le ombre minacciose delle camerate grigie e la vita ritrovò
il suo ritmo.
Così,
con questo marchio, il governo impedì al film di uscire fino al ’45,
ma Vigo ebbe poco tempo per indignarsi, e certo nulla gli
importava di tali amenità mentre, febbrile, girava sequenze:
“…Si
sa che era già malato mentre girava i suoi due film e anche che ha
girato certe sequenze di Zéro de conduite steso
su un letto da campo.”(F. Truffaut, cit.)
Truffaut
ne raccoglie il testimone nel ’59, Antoine Doinel è il
fratello minore di quei quattro bricconcelli e Miguel Almereyda,
l’anarchico padre di Jean, morto in carcere, potrebbe
essere il nonno dell’intera compagnia.
Ma
Doinel è solo, Caussat, Colin, Briel e Tabart no.
La
differenza è profonda. Se
è vero come è vero che il cinema è specchio dei tempi e ne fissa
lo spirito per immagini, dobbiamo anche registrare, al di là del
magistero stilistico, lo iato forte che separa Truffaut,
figlio del dopoguerra, da Vigo, capostipite, con un certo Ozu
degli anni venti e trenta, di un cinema che guarda il mondo dei
giovanissimi “ad altezza di tatami” (per Ozu ricordiamo
Ho studiato ma…, C’era un padre, Il
coro di Tokyo, Storia di
erbe fluttuanti, Una
locanda di Tokyo, Il
figlio unico, quadri di
padri e figli in un Giappone
pre-bellico che si apprestava a perdere tutte le sue certezze, ma,
per il momento, ancora ne aveva).
Farne
di cotte e di crude, fare il diavolo a
quattro, ogni Paese ha il suo
pittoresco repertorio idiomatico e dunque così tradurremo
quei quatre cents coups. Per
come andavano le cose più di mezzo secolo fa, le birichinate di
questi ragazzi sono, sì, di cotte e di crude, ma oggi
fanno sorridere con amarezza, vorremmo che ne facessero ancora
così... (ma questa è un’altra storia). Eppure la crudeltà del
mondo adulto è la stessa, stesse chiusure e uguali miserie, storia
di eterni ritorni, dai voli giù dalla rupe Tarpea in avanti.
E
il cinema sa come raccontarle, da Est a Ovest. Da
Vigo a Truffaut, da De Seta a Cantet, De Sica
e Wajda, e ancora Kanevski, Ekk,
Fansten, Landis, Spike Lee e
Van Sant, Kore-e-da e Ozu, tutti
hanno messo in scena percorsi di formazione che
spiegano come l’infanzia e la
famiglia non siano quelle di cui tenta di convincerci Il Mulino
Bianco.
Antoine
ha la stoffa del ribelle? Forse, l’ambiguità regna sovrana nel
mondo nuovo del cinema post-bellico, nessun ritratto a tutto tondo
che ci convinca che il mondo è bianco o nero.
Come
non ribellarsi se i genitori non lo capiscono e
lo trascurano, se dal suo microcosmo alienato il passaggio sarà
verso il microcosmo concentrazionario del carcere prima e del
riformatorio poi? Se
ruba una macchina da scrivere lo fa per denaro? O per scrivere le sue
memorie? Né
l’uno né l’altro, non sa che farsene e la riconsegna. Naturalmente
lo arrestano, strani i rapporti di causa/effetto che il codice tesse
infaticabile per la società civile.
Non
chiederci la parola che mondi possa aprirti, avvisa Montale,
di Antoine è meglio guardare gli occhi dietro quella finestrella, o
la figurina in controluce, stilizzata come una scultura di
Giacometti, che corre sulla spiaggia verso una meta, il mare,
che poi lo fermerà, segnerà per lui un altro confine.
Ma
ora è il tempo della libertà, poco importa se affidata ad una scena
breve, finale, non serve parlare per ore se ne è rimasta intatta la
memoria, come dell’altra, quella sul tetto.
Una
corsa su una spiaggia vuota verso il mare che lampeggia giù in
fondo, una marcia in controluce sul tetto della scuola verso un cielo
di biancore accecante.
E
un grande cinema per raccontarcelo, come diceva Godard:
“Con I 400 colpi François
Truffaut entra nel cinema francese moderno come nel collegio della
nostra infanzia. Ragazzi umiliati di Bernanos. Ragazzi al potere di
Vitrac. Ragazzi terribili di Melville-Cocteau. E ragazzi di Vigo,
ragazzi di Rossellini, insomma ragazzi di Truffaut, espressione che
passerà dopo l'uscita del film nel linguaggio comune. Si dirà
presto i ragazzi di Truffaut come si dice i lancieri del Bengala, i
guastafeste, i re della mafia, gli assi del volante, o anche, per
dirla in due parole, i drogati del cinema".
Paola Di Giuseppe
I
quattrocento colpi
(Les
400 coups) Francia1959 durata100'
di
François Truffaut
Soggetto:
François Truffaut. Sceneggiatura: François Truffaut, Marcel
Moussy. Fotografia: Henri Decaë. Montaggio:
Marie-Josèphe Yoyotte. Scenografia: Bernard Evein. Musica:
Jean Constantin. Interpreti: Jean-Pierre Léaud (Antoine
Doinel), Claire Maurier (Sig.ra Doinel), Albert Remy (Sig. Doinel),
Guy Decomble (il professore), Patrick Auffay (René Bigey), Georges
Flamant (il signor Bigey), Yvonne Claudie (la signora Bigey), Robert
Beauvais (il preside).
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