Nella
biografia del prete di Bozzolo, Primo Mazzolari, non si troveranno i
segni di una fede acquiescente, passata all’ombra confortante dei
rituali ecclesiastici e delle canoniche orazioni. Piuttosto il grido
doloroso, lo squarcio che la coscienza cristiana opera nel velo degli
accomodamenti e delle abitudini.
Precursore
dello spirito conciliare, sin da giovanissimo, Don Primo ebbe come
riferimenti i termini dell’insegnamento evangelico: la carità,
l’amore fraterno, il perdono senza speranza di ritorno, la purezza
d’animo, una rivoluzione che non sopporta riduzioni di senso.
“Rivoluzione
cristiana” (1955) è uno dei suoi testi più significativi in cui,
non a caso, Mazzolari spiega il motivo di un atto spirituale di
adesione alle radici del credere che, pur traendo spunto da una
tradizione millenaria, si rinnova ogni giorno al contatto vivo
dell’uomo con la realtà.
“L’impegno
con Cristo” – altra opera fondativa della sua Weltanschauung
uscita nel 1943 – ha al suo centro il tema del rinnovamento
costante delle promesse evangeliche e della lotta duratura, condotta
con fermezza e serenità, per l’affermazione di un mondo dove
giustizia e fratellanza non siano i termini di un discorso sempre più
astratto, lasciato alla retorica, ma i capisaldi di una matura
convivenza civile.
L’umile
ascolto della parola diviene allora scatto ed ulteriore motivo per
difendere le ragioni degli ultimi, per soccorrere i bisognosi, per
passare dall’altra parte della barricata nel sempre labile confine
tra il Bene ed il Male ed assumere il punto vista dell’afflitto,
del peccatore, del perseguitato. Sempre sorretto nel faticoso, eppure
avvincente, incontro con l’altro dall’esempio costante del
“compagno Cristo”.
In
vita questo atteggiamento intransigente di Don Primo, votato alla
rinuncia, lontano dal calcolo, avverso alle svariate forme di una
religione appariscente, enfatizzata o – peggio ancora –
ideologizzata, non trovò, a parte qualche eccezione, intelligenze
sufficientemente reattive e sensibili, soprattutto negli ambienti
della gerarchia cattolica. Sin dalla pubblicazione di uno dei suoi
primi volumi – “Una Bella Avventura” del 1936, incentrato sulla
figura del Figliol Prodigo – è l’immagine del “lontano”,
come soleva esprimersi Don Primo, del non allineato rispetto ad una
tranquillizzante normalità – a tenere banco. L’allusione non
puntava tanto a coloro che avevano preso le distanze dalla religione,
le vittime dei meccanismi, via via più affinati, di esclusione
sociale, quanto su una Chiesa, al contrario, distante dai bisogni
della gente, distratta, piena di limiti e debolezze.
La
sequela di veti al pensiero di rottura del prete è una triste lista
di proscrizioni a cui le parole, essenziali ed asciutte, severe ed
accorate del “curato di campagna” – volendo parafrase il titolo
un romanzo di Georges Bernanos, il cui protagonista, nella sua
sofferta tensione spirituale, sembra da più parti richiamare la
vocazione di Mazzolari – non si sono mai sottratte. Prima il
regime fascista – che fa pesare la scure della censura su coloro
che non rispondono ai canoni di un’Istituzione inginocchiata ai
voleri uniformanti della dittatura – poi il periodo post-bellico –
dominato dall’egemonia culturale di sinistra e dall’asettico
potere politico democristiano – in cui Mazzolari, pur criticando
aspramente il comunismo come mezzo di sopraffazione ideologica, ne
riconosce i semi di una società trasformata. “Combatto il
comunismo, amo il comunismo” divenne l’emblema di una condizione
di apertura non condizionata e di un ostinato dialogo verso la
diversità di pensiero in cui, al fondo, si scoprono sorprendenti
punti di contatto. L’alterità accolta e lasciata fruttificare.
“Adesso”,
la rivista da lui fondata nel 1949, procedeva lungo tale linea di
condotta. Un foglio contrastato, “Adesso”, inviso al
Vaticano, sospeso temporaneamente nel 1950 e poi ripreso sotto la
direzione di un laico, Giulio Vaggi, in cui Mazzolari era costretto –
proprio per gli anatemi lanciati a più riprese dai superiori – a
riparare dietro pseudonimi. Resta ancora oggi – datosi che viene
tuttora pubblicato – il carattere coraggioso ed interventista del
periodico di un tempo, in grado di affrontare robustamente problemi
urgenti per il destino del mondo e di raccogliere le testimonianze di
alcuni dei più importanti intellettuali e scrittori cattolici.
D’altronde,
Don Primo Mazzolari proveniva da una fase di profonda innovazione del
Cristianesimo, rimesso in discussione dall’interno, riformato e
ri-discusso. In tempi non sospetti, e prima ancora del Concilio
Vaticano II, in piena Seconda Guerra Mondiale, sono alcuni cristiani
coraggiosi a tuonare contro l’asservimento ideologico dei credenti:
in Francia, con il Mounier – anche qui – de “La rivoluzione
personalista e comunitaria” e il Maritain di “Umanesimo
integrale”; in Italia con le voci di Dossetti e Lazzati e dei
cosiddetti “professorini” di Firenze – La Pira e Fanfani –
anticipate, in qualche modo, dal filone “modernista” di Antonio
Rosmini e Romolo Murri, il sacerdote marchigiano scomunicato per
avere posto a contatto la Chiesa con la complesse sfide della società
di inizio Novecento.
Come
Murri, Mazzolari non avrà paura di dichiarare le proprie verità –
le verità di tutti senza distinzioni ed appartenenze – ovvero la
difesa dei poveri, l’esigenza di una Chiesa umile, il bisogno di
ascolto, l’ostinazione per la pace, l’impegno per l’eguaglianza
e la giustizia. Come Murri diverrà l’apostolo di una fede
“agonica”, per dirla con il filosofo spagnolo Miguel De Unamuno,
vissuta al pari di una conquista giornaliera.
La
riabilitazione di Mazzolari giunse tardiva, poco prima della morte,
da parte – e non poteva essere diversamente – dei due papi del
Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII e Paolo VI. Di lui, anzi, papa
Montini – un altro pensatore tormentato, in grado di captare le
“res novae” del proprio tempo – così ebbe a dire: “lui
aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro”.
Ancora oggi si stenta a riconoscerne la grandezza, per un difetto di
approssimazione, nel presente indistinto e poco nutrito di parole
autentiche della società attuale. Ma forse – continuando ancora il
ragionamento di Paolo VI – questo è il destino che tocca in sorte
a tutti i profeti.
Alceo Lucidi
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