Dopo
tutto quello che ha fatto, in una vita che è già storia del Jazz,
suonando con tutti i grandi e influenzandoli col suo talento –
giovanissimo fu anche nel famoso Bitches
Brew con
Miles Davis – oggi è qui, in carne e clarinetto, sotto un cielo di
tubi di rame nell’ex birrodotto al Cotton
Jazz Club di Ascoli Piceno.
Aspettando,
esamino attento e devoto la pregiata mercanzia di ottoni al centro
del palco in penombra, con dietro il contrabbasso disteso su un
fianco, ai lati la poco appariscente batteria dalla piccola cassa e
ilpianoforte
a coda lunga, nero con
la riga bianca dei tasti - come i denti splendenti della pubblicità
- illuminati radenti dal faro.
Troneggia su tutto il regale clarinetto-basso, magro e lungo come giraffa, ritto su una sola gamba come una gru, un po’ inclinato come se guardasse pensoso lontano…
Troneggia su tutto il regale clarinetto-basso, magro e lungo come giraffa, ritto su una sola gamba come una gru, un po’ inclinato come se guardasse pensoso lontano…
Trenta
persone si sono già da un po’ allineate in “platea”: lo
zoccolo duro del Cotton Club penso, ma anche i molti che stanno
chiudendo la cena nell’ala sopraelevata si accoccolano prendendo le
misure tra loro. Sembrano tutti “mirare” il clarinetto-basso,
ovvio. Mentre lungo il curvilineo bancone newyorchese le birre
“lavorano” di continuo ed è giusto così, una gran serata Jazz
ha bisogno di buon lubrificante… L’atmosfera è giusta, come
sempre. Quando Bennie Maupin arriva ti viene in mente un imperatore.
Saranno i suoi gesti al ralenti, lo sguardo al futuro, sarà la
signorile modestia, sarà la calma. Dopo un inizio simil-classico in
quieta agilità, sui sax, col “trio grigio” che accarezza gli
strumenti valorizzandosi a turno ma senza spingere, dopo un secondo
pezzo dalle sonorità alla Miles Davis, col piano avaro di note un
po’ alla Meldau, la batteria soft quasi sempre sui martelletti e il
contrabbasso esuberante ma silenzioso, finalmente Maupin prende il
clarinetto-basso. Quasi basta il gesto. Il clarinetto-basso sembra
destarsi, ondeggiando come un cobra. All’istante tutte le birre
rimangono sui tavoli e sul bancone, inarchiamo le schiene come in
palestra, aguzziamo orecchie e sguardi, registriamo “dentro” i
suoni da foresta primitiva, dai pochi hertz vibranti e solitari,
pieni come un’orchestra, perforanti e liberatori. Pezzi che
iniziano un po’ camuffati, che non si capisce dove andranno a
parare, ma che pian piano si “formano” e si scoprono e si
semplificano, talvolta giocando alla milonga. Poi qualcuno lo
riconosciamo, anche se i vecchi 33 giri, lassù in alto nella
libreria, non li abbiamo più colpevolmente ascoltati. E quando
Maupin si ferma per lasciar spazio al “suo” trio, appoggiandosi
con dolcezza al clarinetto-basso, ecco che pare un imperatore…
Seconda
parte del concerto, e ormai gli ottoni li ha provati tutti, ma Bennie
sa che abbiamo ancora bisogno di note basse-bassissime: calde,
vulcaniche, africane, misteriose, rare. Così ce ne regala ancora,
gustosamente, e l’affiatamento col suo trio è la perfezione. Il
“trio grigio”. Lo chiamo così perché vestono grigio, polacchi
veraci senza fronzoli. E ragazzi formidabili, brillantemente
non-convenzionali. Non sono spalla di nessuno. Né gregari. Il loro
CD
“The
Sign”
è profondo, futuribile, affettuoso, dal sapore di Cracovia.
Se
Bennie Maupin ha scelto da tempo di vivere in Polonia, un motivo ci
sarà.
PGC
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