Nessuno
più riesce a distrarci durevolmente, ormai. Troppo tosti i problemi:
la crisi perenne, l’economia trista, il non-lavoro, la decrescita
in-felice, la politica corrotta, il degrado morale, i maligni moniti
dei potenti, le scandalose promesse. Una volta bastavano un film, un
concerto, un libro, una partita di calcio, una fuggevole incursione
in una mostra o in un museo, una passione… ma oggi appaiono solo
tenui diversivi, vane ricreazioni da collegio, disincantate evasioni
che ancor prima di esaurirsi ci rimandano dritti nel limbo di
insoddisfazione, cupezza, rabbia.
Neanche l’amato jazz ce la fa più a distrarci convintamente, salvo lampi di felicità invisibile. James Taylor col suo quartetto invece c’è riuscito. Ha compiuto il prodigio. Oddio, non subito: i due pezzi iniziali lasciavano un po’ interdetti. Non per assenza di qualcosa, ma perché forse troppo professionali, asettici, precisi, poco… turbolenti. Se n’è accorto subito, lui, e ha virato con decisione. Ohhh! ci siamo detti dopo esserci guardati. Certo, gli strumenti sul palco hanno patito: l’organo Hammond, se avesse avuto i ruotini come un“pianoforte a coda lunga, nero” si sarebbe messo a correre friggendo; la super bastonata batteria, sotto deidrive micidiali, non s’è sfasciata ma per poco; le corde della chitarra elettrica hanno resistito eroiche come in guerra, ma si saranno rotte tutte insieme prima di tornare nel fodero; mentre il basso da Formula 1 ha preso il colore del ferro rovente che cuoce le dita.
Neanche l’amato jazz ce la fa più a distrarci convintamente, salvo lampi di felicità invisibile. James Taylor col suo quartetto invece c’è riuscito. Ha compiuto il prodigio. Oddio, non subito: i due pezzi iniziali lasciavano un po’ interdetti. Non per assenza di qualcosa, ma perché forse troppo professionali, asettici, precisi, poco… turbolenti. Se n’è accorto subito, lui, e ha virato con decisione. Ohhh! ci siamo detti dopo esserci guardati. Certo, gli strumenti sul palco hanno patito: l’organo Hammond, se avesse avuto i ruotini come un“pianoforte a coda lunga, nero” si sarebbe messo a correre friggendo; la super bastonata batteria, sotto deidrive micidiali, non s’è sfasciata ma per poco; le corde della chitarra elettrica hanno resistito eroiche come in guerra, ma si saranno rotte tutte insieme prima di tornare nel fodero; mentre il basso da Formula 1 ha preso il colore del ferro rovente che cuoce le dita.
Ed
ecco magicamente elettrizzato l’intero Cotton Club, dal cielo di
tubi di rame dell’ex birrodotto alle birre. Evaporati i torvi
pensieri di ognuno, neutralizzata ogni inquietudine da un’energia
magnetica densa e tumultuosa, ma pulita. Uragano di suoni, di note,
di percussioni, che ci ha (provvisoriamente) ringiovaniti. Anche i
più misurati, i più freddi, quelli con l’aplomb e la faccia e
l’espressione un po’ così, i più arrugginiti, i più sedentari,
i più sovrappeso, i più artritici. Quasi tutti in piedi, vibranti,
le mani bollenti, goffi ma quasi-agili. Diciamo buffi. Davvero una
“distrazione
di massa”,
prodotta da una miscela sulfurea di FUNK-POP-SOUL-JAZZ da far
risuscitare i morti. Che
quei quattro ci sapessero fare era noto, ma per noi hanno dato tutto
quel che avevano, pure i capelli, tre su quattro… Non hanno solo
“suonato”, hanno “unito”; non è stato solo concerto,
piuttosto una grande corale irripetibile installazione artistica.
Alla
fine, ahinoi, fuori del C=Lounge ci ritocca l’arido
vero:
la solita Ascoli, i soliti nostri paesi, le solite Marche che fanno
marketing con Leopardi, le croniche macerie dell’italietta che ci
tiene in ambasce. Ma una “distrazione di massa” così fulgida e
profonda è stata più salutifera di un potente vaccino.
Lo
dico per me, “incatenato
e perduto”.
PGC
Foto
di pierluigigiorgi
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