Nel
1928 Buster Keaton (aveva 33 anni, e recitava praticamente da
33) girò The cameraman per la Metro Pictures Inc. (poi
Metro-Goldwin-Mayer)
Scrisse
in seguito: “Nel 1928 commisi l'errore più grande della mia
vita. Mi lasciai convincere da Joe Schenk, mio malgrado, a rinunciare
ai miei studios per lavorare con la Metro-Goldwin-Mayer".
L’avvento del sonoro fece il resto.
Il
suo genio comico, la sua inimitabile capacità di comunicare col
gesto, con gli occhi, con la fisicità pura, non avevano bisogno di
parole. Ci sono momenti, nella storia dell’arte assolutamente
irripetibili e circoscritti in un dato arco di tempo. Quello che
avviene dopo è solo “nota a margine”.
Il mondo fantastico di Buster Keaton finì con la fine del muto, quello che ha prodotto fra il ’17 e il ’29 resterà una pietra miliare del cinema ed è lì che dobbiamo cercare il suo genio, in quelle pellicole che meriterebbero, tutte, un doveroso restauro.
Il mondo fantastico di Buster Keaton finì con la fine del muto, quello che ha prodotto fra il ’17 e il ’29 resterà una pietra miliare del cinema ed è lì che dobbiamo cercare il suo genio, in quelle pellicole che meriterebbero, tutte, un doveroso restauro.
The
cameraman fu dunque l’inizio della fine. Nulla manca, c’è
ancora il grande Keaton con momenti di indimenticabile e
irripetibile comicità (e tristezza, che sempre si accompagna al
comico), ma si avverte sul fondo, molto sul fondo, come un presagio,
una stanchezza mai avvertita prima.
E
allora condividiamo l’osservazione di Mario Soldati che
diceva: “Qualcuno ha gridato al capolavoro assoluto. Ma era
gente che non aveva mai visto, o che non ricordava bene, i grandi
film di Keaton. Altrimenti avrebbe notato da una parte certe
stanchezze e certe insistenze (come nelle scene della piscina e
specialmente dello spogliatoio, o nella gag della porta a vetri,
sfondata troppe volte e prevedibilmente): e avrebbe notato, d'altra
parte, alcuni episodi che presentano il difetto opposto:
eccessivamente sbrigativi e quasi schematici (come la rissa nel
quartiere cinese o come la regata finale, dove si vorrebbe qualcosa
di più; si pensi al finale di College)”.
Quello
di Soldati è un bell'omaggio all’arte di Keaton, è
come dire: “E’ un gran bel film, ma se pensiamo a quanto più
grandi sono stati tutti gli altri non possiamo ignorare le
differenze”. Ed infatti è così, The cameraman è
degno di figurare accanto ai capolavori del periodo d’oro, ma
rivela un presagio di futuro che poi altro non è che lo sguardo del
regista, la sua sensibilità che già sente l’aria che cambia. Nel
1932 la MGM lo licenzia, il sonoro è ormai arrivato e lui è una
vittima designata. Il resto è storia nota. In fondo, girare il suo
ultimo, grande film, sulla figura di un cameraman è come girare un
film sul cinema, sul suo eterno gioco di specchi e rimandi tra
fantasia e realtà, tra finzione, spesso più vera del vero, e verità
dai margini così ambigui che a stento a volte li scorgiamo. Era un
omaggio al cinema e, ora lo sappiamo, un addio. Ma, a distanza di
tanto tempo, si continua ancora a riscoprire Buster Keaton e a
dar ragione a Rudi Blesh (Keaton, 1966) che
scriveva: “Non era mai lo stesso da una volta all’altra;
gettava i suoi cliché prima che si cristallizzassero. La gente
ritornava ogni giorno per vedere le novità”.
Sempre
nuovo è l’artista che non finisce mai di stupirci, anche se
abbiamo visto lo stesso film, ascoltato la stessa musica o ci siamo
persi fra i colori della stessa tela decine di volte. Sempre nuovo è
il comico che continua a far ridere e ridere, che ci sposta da lì,
dove ci troviamo, e come le figurine di Chagall ci fa volare
in assenza di gravità. Perchè con Keaton si vola. Le sue
corse all’impazzata per raggiungere l’amata che gli sta
telefonando, e arrivare da lei prima ancora che la ragazza abbia
finito di parlare e riagganciato la cornetta; il suo accovacciarsi in
totale assenza di gravità sopra la ruota del tram per starle vicino
dopo che la ressa l’ha buttato fuori dalla cabina; il suo mite
accettare di star seduto dietro, sotto la pioggia, dove non arriva la
capote dell'auto e poi dirle, fradicio come un pulcino, che ne
è valsa la pena per starle vicino. E infine quegli occhi, in primo
piano, dietro la macchina da presa, che la guardano con adorazione
infinita. Si può ridere di storie d’amore? Sì, certo, cos’altro
si dovrebbe fare? Piangere forse? Lui è innamorato di lei, è stato
un colpo di fulmine micidiale. Fotografo ambulante, era per strada,
si guadagnava così, modestamente, da vivere, quand’ecco lei. E le
gambe della sua macchina (quei cavalletti di un secolo fa!) , che
mentre la fotografa si piegano spalmandosi a terra, sono le sue che
tremano. E quel caparbio insistere ad aspettarla, nel suo ufficio:
“Finirò di lavorare fra tre ore” , “Bene, mi siedo
qui…” .
Nell’ufficio
di Sally (così si chiama la dolce fanciulla, segretaria, guarda
caso, della MGM) entrano ed escono frotte di cameramen con le
ingombranti macchine in spalla, solo lui riesce a rompere il vetro
della porta tutte le volte.
Ma
solo lui farà lo scoop del secolo, con il suo macinino di cui
ridevano tutti.
E
così Harold, un cameraman MGM suo rivale in amore, esce sconfitto e,
come in ogni bella favola, vissero tutti felici e contenti.
Ma,
attenzione, non sarebbe Keaton se non ci fosse molto altro a
dare il giusto affondo alla cosiddetta “complessità del reale”.
E allora c’è la metropoli tentacolare dove l’omino corre,
inciampa, cade, si rialza, filma una guerra fra bande a Chinatown, i
tremendi Tong, sfugge miracolosamente al loro inseguimento, porta la
bella in piscina, perde il costume in acqua, “Mio Dio, come
faccio? Metto i mutandoni ascellari della grassona che si è appena
tuffata” e via, ancora avanti, senza respiro. Ed ecco un bel
campo da baseball, desolatamente vuoto, gli Yankees sono in
trasferta. Poco importa, gioca lui, senza palla nè guantone, solo la
macchina che lo riprende al centro del campo (che Antonioni abbia
pensato a lui quando faceva volare la pallina invisibile di Blow
Up?). Non si finirebbe mai di soffermarsi sulle sequenze che
filano via all’impazzata, guidate da un magistrale senso del ritmo,
un occhio sempre attento all’armonia dell’insieme, perchè nulla
deve creare pesantezza, oscurità, il fil rouge del racconto
dev’essere sempre teso, dominato da una regia accuratissima, anche
quando i fili s’intrecciano in grovigli inestricabili. Il coup
de théatre è sempre pronto, il reale diventa surreale ma poi
torna reale con rapido scarto a creare uno snodo inatteso, la via di
fuga imprevedibile, che può addirittura essere una scimmietta
ammaestrata.The cameraman, alla sua prima uscita in
Italia, si chiamava infatti Io e la scimmiaperchè una
buffa scimmietta balza all’improvviso fuori dal cilindro del
prestigiatore e sarà lei a ribaltare la realtà. C’è, nel cinema
di Keaton, e inThe cameraman si conferma forte,
tutta la carica eversiva che solo il teatro del comico è in grado di
riversare sul reale trasformandolo.La risata, con Keaton,
davvero li seppellirà. Chi? Chiunque si metta di traverso sulla sua
strada.
Paola
Di Giuseppe
USA
- 1928 - 67’
Regia
Edward Sedgwick-Buster Keaton. Con Buster Keaton, Marceline Day,
Harold Goodwin
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