“Il cefalo dai capelli rossicci” è una raccolta di 13 racconti incentrati sull’analisi (spesso in chiave allegorica) di disagi, esperienze dolorose e traumi irrisolti. A tratti ironico e surreale, altre volte duro e grottesco, il libro si dipana tra personaggi singolari e storie assolutamente inedite, mettendo in scena situazioni spesso al limite in cui l’autrice non ha paura di raccontare le zone d’ombra nella quale la ragione ama annullarsi.
12/12/15
08/12/15
Il giudizio semiserio del nostro Art Director (il "Frank") sulle proposte di collaborazioni per UT L'Ebbrezza
Genovese = 8+ eb.
Pacini = 7 eb.
Max editor. = 9++ eb.
Cuconato = 6-- eb.
Enrica = 9 che vale 10 eb.
Baldaccini = 7 che vale 9-- eb.
Piscopo = 8 che vale 9- eb.
Pozzoni = 8++ eb.
Olivieri = 6 e 3/4 eb.
Maiorino = 7 che vale? eb.
Lucidi = poco - di sempre eb.
Max nota = ++ dell’opera eb.
Piermarini = --7-- eb.
Lazzarini = 7+/- eb.
Salvo = 8 che vale 6+ eb.
Roncarolo = 7 e 1/2 eb.
Esposito 9+ se toglie ‘emotiva’ eb.
Max, fammi la domanda: Frank hai letto i testi?
Risposta: NO
28/11/15
45 anni. Il film. La recensione di Antonella Roncarolo
Grazie ad una magistrale interpretazione di Charlotte Rampling e
ad uno squisito Tom Courtenay, il regista inglese Andrew Haigh , che
ha anche co-sceneggiato il film, racconta la trasformazione di un
matrimonio adagiato su una flebile crisi del quotidiano, in qualcosa
di straordinario. Attraverso un sottile esame della persistenza del
passato e la fragile (in)stabilità del presente, il giovane regista
dipinge il ritratto di un solido rapporto di fronte a una fessura che
taglia di netto il suo nucleo. Il tutto accade nei giorni precedenti
la festa per il 45° anniversario di matrimonio della coppia.
La trama è tratta da un enigmatico racconto di David Costantine, In another country, in cui un uomo anziano riceve una lettera dalla Svizzera in cui si comunica che il corpo della sua giovane compagna è stato trovato, perfettamente conservato nel ghiaccio delle Alpi, dove è caduta 50 anni fa. La notizia ottiene una fredda accoglienza da sua moglie, che è giustamente allarmata per lo spettro congelato di un antico amore . "In quella piccola stanza arrivò come un fantasma”, scrive Costantine , “la visione della mia Katya, che non era invecchiata di un solo giorno dopo la sua morte, creando una frattura di ghiaccio, tanto tangibile quanto quella in cui la sua povera anima inciampò e cadde tanti anni fa”. Dalle schegge caleidoscopiche di questa esile storia, Haigh crea per il grande schermo un racconto di notevole complessità, profondità e oscurità. Pur ammettendo che difficilmente può intaccare un rapporto ciò che è accaduto prima del loro incontro, la moglie Kate (Charlotte Rampling) fatica a dare un senso al suo matrimonio senza figli per la presenza ingombrante di questo intruso perfettamente conservato. Per quanto riguarda il marito Geoff (Tom Courtenay) fino a quel momento figura pigra e imbambolata a causa dei postumi di una difficile operazione al cuore di cinque anni prima, la scoperta del corpo di Katya lo trasforma in un uomo fuori dal tempo - "Lei sembra come era nel 1962 e io vedo solo questo" - il suo spirito sale a spirale verso una lontana giovinezza e i suoi ricordi sono più chiari e vividi rispetto alla vista nebbiosa degli occhi del presente. Il dialogo fra i due è molto semplice ed è immerso nel malinconico paesaggio delle Norfolk Broads, le grandi pianure ad est dell’Inghilterra in netto contrasto con le tragiche avventure alpine del giovane Geoff. I giorni vengono computati in capitoli come in un thriller, mentre Geoff furtivamente scivola in soffitta in cerca di ricordi sepolti e Kate si sente minacciata da vecchie diapositive che rivelano l’abisso del passato di suo marito. Ironia della sorte, è l'onestà con cui Geoff risponde alle domande della moglie - "L’avresti sposata?" - che dà a Kate motivo di dubitare di lui.
Nel frattempo, le diegetiche scelte musicali del regista raccontano un sinistro racconto. Dopo aver descritto che sospettava la loro guida alpina di flirtare con la sua ragazza, Geoff porta Kate in soggiorno e balla con lei “Stagger Lee”, una vecchia ballata americana che parla di litigi e omicidi efferati nell’interpretazione allegra di Lloyd Price.
Si tratta di personaggi la cui storia è viva in ogni sguardo e gesto, Haigh e il direttore della fotografia Lol Crawley favoriscono lunghe inquadrature in cui uno dei due partner può andare alla deriva dentro o fuori lo schermo. Non c'è spazio per nascondersi, e Courtenay e Rampling sono al massimo del loro gioco in tutto, disegnando per noi spettatori speranze e paure. “45 anni” ci mostra il passato materializzandosi nelle espressioni di chi è intrappolato nel presente e fissa un incerto futuro.
La Rampling in particolare, è una sinfonia di grida fisiche e sussurri, i suoi occhi preoccupati e sorrisi tesi descrivono con precisione ogni emozione e il suo viso cade lentamente come il ghiaccio che si scioglie e per il quale Geoff è tanto ossessionato.
Quando nella scena finale, Geoff e Kate ballano la lamentosa “Smoke gets in your eyes” dei Platters ' la loro storia è messa a nudo, due sconosciuti che si abbracciano separati da una distanza fisica e temporale. Gli spettatori potranno decidere da soli se dopo quel ballo i due si separeranno per sempre, ma ho il sospetto che i più saranno d'accordo sull’inquietudine dello sguardo finale di Kate apparentemente semplice e disorientante nell'abisso.
Antonella Roncarolo
La trama è tratta da un enigmatico racconto di David Costantine, In another country, in cui un uomo anziano riceve una lettera dalla Svizzera in cui si comunica che il corpo della sua giovane compagna è stato trovato, perfettamente conservato nel ghiaccio delle Alpi, dove è caduta 50 anni fa. La notizia ottiene una fredda accoglienza da sua moglie, che è giustamente allarmata per lo spettro congelato di un antico amore . "In quella piccola stanza arrivò come un fantasma”, scrive Costantine , “la visione della mia Katya, che non era invecchiata di un solo giorno dopo la sua morte, creando una frattura di ghiaccio, tanto tangibile quanto quella in cui la sua povera anima inciampò e cadde tanti anni fa”. Dalle schegge caleidoscopiche di questa esile storia, Haigh crea per il grande schermo un racconto di notevole complessità, profondità e oscurità. Pur ammettendo che difficilmente può intaccare un rapporto ciò che è accaduto prima del loro incontro, la moglie Kate (Charlotte Rampling) fatica a dare un senso al suo matrimonio senza figli per la presenza ingombrante di questo intruso perfettamente conservato. Per quanto riguarda il marito Geoff (Tom Courtenay) fino a quel momento figura pigra e imbambolata a causa dei postumi di una difficile operazione al cuore di cinque anni prima, la scoperta del corpo di Katya lo trasforma in un uomo fuori dal tempo - "Lei sembra come era nel 1962 e io vedo solo questo" - il suo spirito sale a spirale verso una lontana giovinezza e i suoi ricordi sono più chiari e vividi rispetto alla vista nebbiosa degli occhi del presente. Il dialogo fra i due è molto semplice ed è immerso nel malinconico paesaggio delle Norfolk Broads, le grandi pianure ad est dell’Inghilterra in netto contrasto con le tragiche avventure alpine del giovane Geoff. I giorni vengono computati in capitoli come in un thriller, mentre Geoff furtivamente scivola in soffitta in cerca di ricordi sepolti e Kate si sente minacciata da vecchie diapositive che rivelano l’abisso del passato di suo marito. Ironia della sorte, è l'onestà con cui Geoff risponde alle domande della moglie - "L’avresti sposata?" - che dà a Kate motivo di dubitare di lui.
Nel frattempo, le diegetiche scelte musicali del regista raccontano un sinistro racconto. Dopo aver descritto che sospettava la loro guida alpina di flirtare con la sua ragazza, Geoff porta Kate in soggiorno e balla con lei “Stagger Lee”, una vecchia ballata americana che parla di litigi e omicidi efferati nell’interpretazione allegra di Lloyd Price.
Si tratta di personaggi la cui storia è viva in ogni sguardo e gesto, Haigh e il direttore della fotografia Lol Crawley favoriscono lunghe inquadrature in cui uno dei due partner può andare alla deriva dentro o fuori lo schermo. Non c'è spazio per nascondersi, e Courtenay e Rampling sono al massimo del loro gioco in tutto, disegnando per noi spettatori speranze e paure. “45 anni” ci mostra il passato materializzandosi nelle espressioni di chi è intrappolato nel presente e fissa un incerto futuro.
La Rampling in particolare, è una sinfonia di grida fisiche e sussurri, i suoi occhi preoccupati e sorrisi tesi descrivono con precisione ogni emozione e il suo viso cade lentamente come il ghiaccio che si scioglie e per il quale Geoff è tanto ossessionato.
Quando nella scena finale, Geoff e Kate ballano la lamentosa “Smoke gets in your eyes” dei Platters ' la loro storia è messa a nudo, due sconosciuti che si abbracciano separati da una distanza fisica e temporale. Gli spettatori potranno decidere da soli se dopo quel ballo i due si separeranno per sempre, ma ho il sospetto che i più saranno d'accordo sull’inquietudine dello sguardo finale di Kate apparentemente semplice e disorientante nell'abisso.
Antonella Roncarolo
11/11/15
09/11/15
L'Archi Accademia Nova al Museo di Roma Palazzo Braschi
Fine
settimana fortunato, quello del 1° novembre. Dopo il bellissimo
venerdì del Teatro di Villa Torlonia il Museo di Roma – Palazzo Braschi – ha dato il via agli
appuntamenti della stagione “A
porte aperte – Musica d’insieme per archi”
con la partecipazione del gruppo “Archi
Accademia Nova”. Un
concerto di fine settimana come tanti altri? No, perchè quella che è
andata in scena è la purezza viva e tenera di una ventina di ragazzi
tra i 14 e i 24 anni: emozionati
un po’, certo (chi non lo sarebbe stato),
che ci hanno mostrato cosa sia il piacere di suonare e di saperlo
fare molto bene. Impostato
sulla centralità del violoncello, il programma, con tre brani di
superlativa bellezza: il Notturno
op. 40, il
primo movimento dalla Serenata
op.22
per archi di Antonin
Dvořák
(purtroppo solo come bis), il Concerto
per due violoncelli e archi RV531
di Antonio
Vivaldi.
Chi
ama Dvořák conosce la
delicatezza armoniosa e a volte malinconica del suo modo di lavorare
con gli archi: basti per tutti il Concerto
in Si minore per Violoncello e Orchestra Op.104 che
Mario Brunello ha definito “IL" concerto per violoncello.
Sempre fluente e armonioso, mai ridondante, il linguaggio nelle sue
composizioni; e se in qualche suo lavoro la “commozione” nasce
da reali momenti di nostalgia, ad esserne stimolate sono sempre le
sensazioni e le emozioni profonde proprie dell’ascoltatore, che
questi comprende essere le stesse del compositore, poiché hanno il
carattere dell’universalità.
Nel
Notturno l’attacco
dei soli violoncelli (quanto Wagner?) con la “gravità” degli
accenti evoca l’intrigante simbolismo della notte, ma essa è anche
il chiarore melodioso della luna che dopo poche battute si fa strada
in punta di violino (quanto Brahms?); l’equilibrato dialogo delle
due sezioni di archi prosegue in eleganza e dolcezza fino ai due
“gioielli” del finale: il pizzicato di contrabbasso e di
contrabbasso-e-violoncelli …e tu che ascolti viaggi libero tra i
tuoi pensieri. Come non volare con il “moderato
- tempo di valse”,
primo movimento della Serenata
op.22, che dispiega
generosamente l’anima boema della musica di Dvořák...
Personaggio di grande semplicità, profondamente schivo e geloso dei
propri sentimenti, Dvořák
li mette a nudo senza riserve solo nelle sue opere: e i ragazzi
dell’Accademia Nova rivelano così attenta e puntuale conoscenza
della sua musica e dell’uomo da saper rendere l’una e l’altro
pienamente trasparenti anche agli ascoltatori.
Di
segno stilistico e temporale del tutto diverso, il Concerto di
Vivaldi
per due violoncelli: di grande bellezza l’esecuzione dei
giovanissimi musicisti, che nella capacità di “riconvertirsi”
con naturalezza si mostrano dotati di grande professionalità ( a
vent’anni!...).
Si
unisce a loro per l’occasione, come altro
violoncello, il M.°
Gabriele Geminiani (Orchestra Mozart, Orchestra Accademia S.Cecilia);
bravissima la giovane ed emozionata Laura Pascali nel suo dialogo
con l'altro violoncello, soprattutto nella pacata morbidezza
dell'adagio e nel contrappunto felice con gli altri archi
dell'orchestra.
Una maturità vera quella
espressa dall’Orchestra con la sua capacità d’interpretare
l'ampiezza della partitura grazie alla compattezza ed esattezza
dell'organico: ne hanno tratto risalto sia la purezza dei "solo"
dei violoncelli che il dialogo di questi con il resto della
compagine, fino al "trionfo" tipicamente vivaldiano del
finale all'unisono.
Primo novembre davvero fortunato
questo, se poco dopo - con ancora nelle orecchie la bella musica e
negli occhi i visi puliti di questi giovani - ti ritrovi a Fontana di
Trevi che dopo il restauro ti "esplode" davanti in tutta la
sua magnificenza e ti ritrovi convinto ancora una volta che Roma sia
l'opera d'arte più bella del mondo; peccato
che le cronache ne narrino un'altra.
Francesco
Di Giuseppe
04/11/15
RomaTre Orchestra Intorno a Ophelia
Non
sempre, a Roma, si respira la mefitica aria di mafia-capitale, degli
intrighi incestuosi tra i voraci reggitori della Città e del Paese,
delle strade-pattumiera e dei servizi fatiscenti; a volte, ad
alleviare il ribrezzo quotidiano del respirare la stessa aria dei
predoni di civiltà e dei loro accoliti, tra queste miserabilia
spuntano isole di pulizia e bellezza. Come quella fiorita venerdì al
Teatro di Villa Torlonia, con quell’ “Intorno
a Ofelia” in cui ha
rivissuto la purezza triste e sfortunata di Ofelia.
Sulle
note di Saint-Saëns,
Chausson,
Berlioz, R.Strauss e Thomas,
la “Roma-Tre
Orchestra“
(sempre più prestigiosa e meritoria istituzione dell’Università
Roma Tre) ha offerto una riflessione in musica sulla vicenda della
fanciulla shakespeariana: riflessione sulla fragilità umana nelle
tempeste della vita; sulla sporcizia dell’intrigo, sulla crudeltà
dell’amore negato, sull’indegnità del tradimento. Ciascun
compositore, a proprio modo, ha “letto” la morte di Ofelia
come l’addio di un’anima innocente e ingenua, schiantata nella
follia dall’insostenibilità del suo essere testimone di
sotterfugi, assassinii e tradimenti:
”Me
misera, che ho visto quel che ho visto, e vedo quel che seguito a
vedere!”. Lettura
composta, levigata ma densa di malinconia e mai eccessiva quella di
Saint-Saëns.
Sottolineato da una fragile nenia (che si
innalza dal mi grave al mi acuto)
il tema della tristezza della fanciulla per la morte del padre nella
“Chanson
d’Ophelie”
di Ernest Chausson.
Romanticamente emozionante nella delicatezza degli accenti in Hector
Berlioz, “La
mort d’Ophelie”
è quasi una preghiera, la semplicità del pianoforte espressiva come
un’orchestra (la sua “orchestra
ideale”?),
mentre il colore della voce accorata fluisce come l’acqua in cui
Ofelia scivola.
“Ai
limiti estremi dell’armonia, della polifonia psicologica e della
recettività dell’orecchio moderno”
* si spinge - come in Salome e Elettra - il Richard Strauss dei tre
Lieder op.67 del 1910: traspaiono, nella rappresentazione della
follia di Ofelia, gli studi freudiani che in quegli anni per la
prima volta scavavano nei tormenti e nelle emozioni represse
dell’animo umano.
“L’aria
d’Ophelie“
dall’ “Hamlet” di Ambroise Thomas è infine “un
florilegio di nuances che sembrano sortire da un flauto ossianico”
(Paul
Bernard) dal fascino lirico indimenticabile, quasi una memoria della
Lucia di Lammermoor….
E’
su quel diafano “Ah!crudele,
vedi le mie lacrime! Ah! Per te muoio!...io muoio!”
che si spegne la rosa
di maggio:
e la voce di Rosaria Angotti ed il pianoforte di Francesco Micozzi –
stupendi ambedue – riescono ad evocare il profumo delle pervinche
che Ofelia stringe in mano mentre il fiume l’accoglie.
Non
si esce immalinconiti dall’argomento trattato, è la forza
consolatrice dell’arte; ci si sente anzi appagati e leggeri per
aver condiviso con amici perfettamente sconosciuti emozioni e
conoscenze: come quando ci si trova fra amici - perfettamente
conosciuti - a parlare di arte e di altre cose belle, con un buon
bicchiere di vino e con la tv rigorosamente spenta!
*
(R.Strauss da “i grandi musicisti” H.Schonberg)
Un
ringraziamento speciale è doveroso verso il professor Jacopo
Pellegrini che ha introdotto i temi della serata in modo veramente
completo e con la semplicità tipica delle persone di profonda
cultura.
Francesco Di Giuseppe
02/11/15
NOI. Il cinquantesimo numero di UT
UT/50/2015-16/9°anno
Noi
cinquantesimo numero di UT
*
venerdì
venerdì
06/11/’15/18.30
day / month / year / hour
Palazzo Bice Piacentini – Sala della Poesia
Paese Alto, San Benedetto del Tronto
*Saranno presenti personalmente o con i loro testi e opere:
Teresa Annibali, Natalia Anzalone, Theocharis Bikiropoulos,
Alessandro Cascio, Giampietro De Angelis, Giarmando Dimarti,
Victoria Esposito, Emanuele Feliziani, Barbara Giuliani,
Enrica Loggi, Alceo Lucidi, Maria Grazia Maiorino, Americo Marconi, Bianca Maria Massi, Michaela Menestrina, Alessandra Morelli,
Mario Narducci, Sacha Naspini, Michele Ortore, Martina Luce
Piermarini, Giuseppe Piscopo, Antonella Roncarolo, Silvia Rosa,
Pier Paolo Ruffinengo, Carlos Sànchez, Dante Marcos Spurio,
e... il trio di UT Massimo, Francesco e Pier Giorgio.
Special Guests
L’attore solista Vincenzo Di Bonaventura, il cantautore Ed Schmidt, il pianista Alessandro Zenobi
*
Prenota una o più copie di UT ‘Noi’ scrivendo a redazione@letteraturamagazine.org, e potrai averla a € 12,00
fino alla sua presentazione, anziché a € 17,00 compreso del secondo ed esclusivo...
fino alla sua presentazione, anziché a € 17,00 compreso del secondo ed esclusivo...
“SottobicchierUT”
È il secondo di una serie di 6, sempre a tiratura limitatissima, grazie al sostegno dell’Azienda Agricola Falleroni
La Dispensa del Contadino
A esso verrà abbinato anche il Marche Rosso Novello igp, con l’etichetta uttiana, venduto separatamente.
Oh perbacco.
*Vedi tutti i numeri precedenti
Sopra: allegato e corpo rivista, opera di Francesco Del Zompo, fotografia di Dante Marcos Spurio, vignetta di Giuseppe Piscopo
PLAY AREA
Sono stati già lanciati 4 ‘giochi’ su 5, in prossimità del 50° numero uttiano – ricercali sulla pagina fb. Il 5° e ultimo gioco sarà proposto alla presentazione. A chi darà il maggior numero di risposte, insieme alla dimostrata partecipazione ad almeno un altro gioco, verrà data in omaggio una t-shurt.
27/10/15
Le t-shUrT dei "marziani" uttiani per il 50
Lo stile è quello inconfondibile di Francesco Del Zompo. La rarefatta atmosfera uttiana è quella di sempre. Per il numero 50, "NOI", UT mette sul mercato addirittura tre diverse t-shUrT con tre grafiche differenti: il logo del nono anno di vita, il classico UT e "annunciazione, annunciazione" che sostituisce la classica e ormai obsoleta presentazione. Inutile negarlo, acquistando una t-shUrT si sostiene la rivista, ed è questo l'obiettivo che vorremmo raggiungere, un po' di tranquillità.
Coloro che intendono sostenerci (a prezzi modici), potranno farlo acquistando in un unico blocco, la rivista, la t-shUrT e il sottobicchiere in fase di avanzata elaborazione a 25 euro. La sola t-shUrt a 13 euro. NOI ci siamo. E voi?
22/10/15
“La homa elemento”. La mostra di Andrea Ciresola recensita attraverso una lettera al gallerista Franco Marconi. 27 settembre – 24 ottobre
Caro Franco, la mostra recente di Andrea Ciresola mi ha colpito
immediatamente, il giorno che sono venuta a trovarti, e l’ho amata
di getto. Ho sentito la leggiadria dei colori, l’immediatezza delle
immagini, la loro amena singolarità, e mi sono detta: ”Ecco la
pittura!”.
E’ stato bello girare per la tua Galleria dove tutto è sincero e segreto, e l’occhio dell’Artista osa oltre la stessa provenienza dell’oggetto ritratto. E tutto ciò che rimane nello specchio della tela è la pura visione incontaminata, l’invenzione della realtà. Si tratta di una realtà vicinissima, che forse ci raggiunge ancor prima di essere ritratta, e gli strumenti dell’Artista sono occhi che indagano, nella perfezione dell’oggetto, nella sua rarità. Quello che vediamo vuole essere immagine di quello che è, ed anche di più. L’unicità degli oggetti prescelti ci parla di una vita che diventa colore, di un colore che rasenta l’apparente astrazione per tramutarsi in verità vissuta. Il silenzio degli oggetti dipinti, la loro solitudine al centro di un paesaggio che fa pensare alla pittura di Hopper, il loro poggiarsi quasi smentendo tutto il resto, alla Marcel Duchamp, il lasciarsi guardare e riconoscere per ciò che di originalissimo c’è in una bicicletta o in una tubatura, oggetti ripescati là dove nessuno guarda, il testimoniarsi attraverso la vivezza del colore che s’impone agli occhi suscitando un’inedita bellezza, in un paesaggio vagamente triste.
Tutto è detto vivacemente, e sembra faccia parte di un arcano che l’Artista svela mentre sogna ad occhi aperti, tenendoci per mano ad ogni quadro, per fare nostra la sua lettura, partecipando a quanto rimane dell’immagine, dopo aver fronteggiato la sua poesia. Così si resta lieti perché ogni “visione” rimanda ad un interrogativo che è un’esistenza, un calore, un segno che vediamo passarci davanti e sfiorarci mentre sostiamo in una luce perfetta e sentiamo di ringraziare per quanto ci viene offerto senza mediazioni, semplicemente affermandosi là dove possiamo ancora trovare lo specchio impeccabile della vita.
Enrica Loggi
E’ stato bello girare per la tua Galleria dove tutto è sincero e segreto, e l’occhio dell’Artista osa oltre la stessa provenienza dell’oggetto ritratto. E tutto ciò che rimane nello specchio della tela è la pura visione incontaminata, l’invenzione della realtà. Si tratta di una realtà vicinissima, che forse ci raggiunge ancor prima di essere ritratta, e gli strumenti dell’Artista sono occhi che indagano, nella perfezione dell’oggetto, nella sua rarità. Quello che vediamo vuole essere immagine di quello che è, ed anche di più. L’unicità degli oggetti prescelti ci parla di una vita che diventa colore, di un colore che rasenta l’apparente astrazione per tramutarsi in verità vissuta. Il silenzio degli oggetti dipinti, la loro solitudine al centro di un paesaggio che fa pensare alla pittura di Hopper, il loro poggiarsi quasi smentendo tutto il resto, alla Marcel Duchamp, il lasciarsi guardare e riconoscere per ciò che di originalissimo c’è in una bicicletta o in una tubatura, oggetti ripescati là dove nessuno guarda, il testimoniarsi attraverso la vivezza del colore che s’impone agli occhi suscitando un’inedita bellezza, in un paesaggio vagamente triste.
Tutto è detto vivacemente, e sembra faccia parte di un arcano che l’Artista svela mentre sogna ad occhi aperti, tenendoci per mano ad ogni quadro, per fare nostra la sua lettura, partecipando a quanto rimane dell’immagine, dopo aver fronteggiato la sua poesia. Così si resta lieti perché ogni “visione” rimanda ad un interrogativo che è un’esistenza, un calore, un segno che vediamo passarci davanti e sfiorarci mentre sostiamo in una luce perfetta e sentiamo di ringraziare per quanto ci viene offerto senza mediazioni, semplicemente affermandosi là dove possiamo ancora trovare lo specchio impeccabile della vita.
Enrica Loggi
20/10/15
L'albero della vita eterna. [Il Giubileo all’EXPO invece che a Roma]
Ora che sindacomarino l’han fatto fuori e di botto arrivano a palate i soldi per il Giubileo (prima non c’era una lira), perché buttare milioni di euro in quella Cloaca Maxima che è l’Urbe? Dato che il Papa non sta più ad Avignone da un pezzo, purtroppo, e il Giubileo s’ha da fare qua, con le sacre casse vaticane a rimpinguarsi a spese nostre, almeno facciamolo all’EXPO di Milano, dove è tutto pronto e si risparmia sicuro. Chiuso quello il 31 ottobre, ci sono ben 38 giorni per ripulire del cibo andato a male, piazzare madonne di vetroresina lungo il Decumano, crocifissi e santi agli incroci, trasformare in chiese qualche padiglione – chessò, di Emirati Arabi, Iran, Kyrgyz – truccare da Basilica di San Pietro l’esterno del Padiglione Italia, fare scorta di ostie biologiche (cibo anche quello). Cosucce da poco. E l’8 dicembre Francesco apremagno cum gaudio.
Milano è meglio, date retta. Ci s’arriva facile, è vicino alla Svizzera (e pure ad Avignone, hai visto mai che…), lontano dai Casamonica.
E poi, tutti quegli spazi brutalmente cementificati dell’EXPO almeno si utilizzano ancora per un anno. Dopo, si asfalta tutto: voilà un’immensa spianata per adunate papali, con pista d’atterraggio per l’Air Force Renz.
Risparmiamoli, ‘sti 400 milioni di euro. Spendiamone solo due-trecentomila per trasformare l’Albero della Vita in un bel cipressone. MAPEI misericordiosa ci sta già pensando.
PGC
10/10/15
"Ritorno alla vita - Every Thing Will Be Fine". Wenders ritorna al cinema
Dopo
diversi film deludenti, Wim Wenders trova la sua ispirazione con un
film all’apparenza modesto, ma estremamente ambizioso, una sorta di
melodramma ovattato e misterioso girato in 3D. Con questo ultimo
film Wenders continua il suo percorso artistico, ribadendo la sua
fede nel potere del cinema di esplorare i misteri dell'animo umano.
Negli
ultimi dieci anni, il cinema di Wim Wenders aveva preso un corso
sinuoso, allontanandosi dai temi dei suoi primi film, causando non
poche delusioni tra i suoi fan, o semplici spettatori, che amavano le
sue opere ricche e varie, alcune incoronate come indiscussi
capolavori. Per riassumere, quindi, lo "Stato delle cose",
il regista negli ultimi anni sembrava sempre più a suo agio solo nel
documentario, che lo ha portato ad alcuni acclamati lavori
come “Pina” nel
2011, o il recente “Sale
della Terra”. Per contro,
Wenders sembrava non trovare più un suo posto nei film di fiction
dopo lavori deludenti, come “Palermo
Shooting” del 2008 o “Do
not come knocking” del 2005,
quest’ultimo accolto freddamente a Cannes e nelle sale. Era quindi
con una certa preoccupazione che si aspettava questo ritorno alla
fiction del regista tedesco alla Berlinale con il film “Everything
will be fine” tradotto, come sempre malamente, in italiano,
“Ritorno alla vita”. E la
sorpresa è stata grande, perché con
questo film abbiamo ritrovato un Wenders rigenerato, certamente molto
diverso da quello dei suoi film cult degli anni Ottanta, ma ancora
una volta in possesso della sua arte narrativa, dell’atmosfera e
della sua personalissima sensibilità. Diversi
sono i fattori, alcuni abbastanza nuovi, in grado di spiegare questo
ritorno e questo successo; tra questi il primo è lo
sceneggiatore-scrittore, l'altro il direttore della fotografia. Lo
scrittore si chiama Bjorn Olaf Johannessen ed è l'autore dello
script che di per sé è già un evento nel cinema di Wenders, visto
che è sempre lui stesso lo sceneggiatore e l'autore del soggetto
originale.
Il tema di
fondo della storia non potrebbe essere più semplice. In Canada,
un giovane scrittore, James Franco, in crisi di ispirazione, dopo una
discussione al telefono con la sua compagna dalla quale non vuole o
non può avere figli, uccide un bambino in un incidente di cui non è
in alcun modo responsabile. Inizia per
lui una discesa agli inferi, seguita da un risveglio che lo porta al
successo sia letterario sia nella vita privata trovando l’amore tra
le braccia della sua editor entusiasta del suo manoscritto e già
madre di una bambina. Questa
storia semplice e lineare, è sviluppata da Johannessen in modo
sottile e complesso. Il racconto si muove su una linea del
tempo di oltre un decennio e ogni sequenza temporale si conclude
come una storia autonoma che costringe lo spettatore a colmare le
lacune nella narrazione. Wenders, molto sottilmente, non
traccia il passaggio del tempo sui personaggi che nel corso degli
anni non invecchiano. Niente trucco quindi, solo qualche modifica
sulle acconciature, gli occhiali, e altri capi di abbigliamento. Solo
i bambini crescono e cambiano. E i
bambini, usati come parametri di riferimento per il tempo, sono anche
il paradosso, dal momento che Tomas, lo scrittore, non può averne e
sarà circondato nella sua vita solo dai figli di altri. Tomas
non può che essere un surrogato di padre, mentre suo padre stesso è
un uomo in declino, deluso dalla vita e sempre più estraneo a causa
della demenza che lo ha colpito in vecchiaia. Le tre
donne che segnano la storia di Tomas hanno figli di cui nulla si sa
dei loro padri. Questa estraneità, mai spiegata durante tutto
il film, è accompagnata dalla magnifica ambientazione: un insolito
Quebec, dove si parla solo inglese e che sembra essere diviso in due
centri: Montreal, quasi irriconoscibile, e un villaggio vicino al
fiume dove si accede solo con un traghetto.
L'altra
novità nell’universo di Wenders è il direttore della fotografia
scelto per questo film. Sappiamo quanto questo ruolo sia
essenziale per il cinema di Wenders ricordando la sua lunga
collaborazione con Henri Alekan. Qui la
scelta è caduta su Benoît Debie, che in precedenza aveva lavorato
sui film di Gaspar Noé e più recentemente su “Lost
River” di Ryan Gosling. E’
solo un giro di parole per dire che il suo lavoro è ancora una volta
straordinario, tanto più che Wenders ha scelto di girare in
3D. Questo formato, che ha usato in maniera eccellente per il
suo documentario su Pina Bausch, può sembrare incongruo su un film
che racconta un dramma intimo. Invece, il risultato è brillante
e perfettamente giustificato. Aiutati dal 3D, Wenders e Debie
riescono a creare un mondo mutevole e incerto, perfetta trasposizione
della psiche di Tomas. Wenders,
per tutto il film, moltiplica i riflessi, le immagini nelle immagini,
fotografando i suoi protagonisti in un materiale filmico in continua
evoluzione, senza che ci sia in tutto il film un’inquadratura
fissa. Lentezza dei movimenti e permanenza, riflessioni,
sfocature, fiocchi di neve si combinano per significare che Tomas,
nonostante il suo successo letterario, ha costruito la sua felicità
personale su un terreno psicologicamente instabile, che alla fine
dovrà risolvere. Come si
affronta un lutto e soprattutto come perdonare? Come si può
accettare che una tragedia sia servita da trampolino per la nascita
di un vero talento? Per non parlare del paradosso principale e
il nodo tragico della sua storia: un uomo che non può avere figli
scopre e rivela il suo talento artistico solo dopo aver
accidentalmente ucciso il figlio di qualcun altro.
Nel corso
del film, ci sono tutti i grandi temi "wenderseniani",
infanzia, questioni di fede e misticismo, creazione artistica,
vagabondaggio interiore, toccati forse in tono minore, come quello
usato dalla colonna sonora originale di Alexandre Desplat. La bellezza
del film è anche probabilmente in questa forma di discrezionalità,
che si riflette nella recitazione di tutti gli attori - e delle tre
donne in particolare, una sorta di magico girotondo attorno al quale
rimane chiuso il protagonista costretto ad accettare un confronto
reale, nel corso di un "faccia a faccia" finale che si
rivelerà decisivo.
Regia Wim Wenders. Sceneggiatura Bjorn Olaf Johannessen. Fotografia Benoît Debie. Colonna Sonora originale Alexandre Desplat
Con James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams, Marie-Josée Croze, Patrick Bauchau.
Antonella Roncarolo
04/10/15
“Continuerò a cantare”. La nuova raccolta poetica di Carlos Sànchez. Quando una grande poetessa incontra un grande poeta
Si è svolta sabato 3 Ottobre alla
Libreria Rinascita di Ascoli Piceno la presentazione dell’ultimo
libro del poeta argentino.
Quelli che seguono sono i miei sinceri
appunti di lettura, con cui ho introdotto l’incontro.
Sfogliando man mano i libri di Carlos
mi sono ritenuta fortunata perché quello che la mia bocca può dire
è riposto nello scrigno di questo e degli altri libri, e si annuncia
pagina per pagina come un percorso fluviale dove l’acqua delle
parole sgorga senza far rumore, diventa idea, diventa mente.
Si
frantumano le parole in esili versi, che avanzano, come i passi di
questo hidalgo, cadenzati, diffusi in una casa che immaginiamo vicina
alle nevi dei monti. Una storia nella storia, un rifrangersi di luci
ed ombre.
La poesia entra, come una ballerina russa, dal vano di
una finestra, in un brano che ricorda Chagall. E veramente a un
dipinto di Chagall somiglia questo far versi, popolati di cose anche
minime, sospese nell’aria in cui Carlos si muove. Un aquilone è
il verso di Sànchez, librato nel vento. Pieno di colori e guidato da
una mano bambina, sotto un cielo amato e dimenticato, nel filo esile
che porta le parole ad abitare questo cielo, poi a dissolversi come
creature della fantasia, passare per un attimo davanti agli occhi, al
cuore per lasciarci sulla terra a cercare di moltiplicare le nostre
visioni.
Ci sono alcune poesie in cui Carlos prende quasi le
distanze dal presente, è come un esercizio spirituale quello di
reggersi altalenando e guardando le cose da un angolo segreto, e
pare anche che tutti questi scritti non ci abbiano ancora detto
tutto. Ma in questo nuovo silenzio eloquente, in questo camminare
giorno per giorno, sta la Grazia che il poeta aspetta e a volte
rincorre.
Enrica Loggi
19/09/15
15/09/15
Francesco Del Zompo, art director di UT, al Source di Firenze. Le sue impressioni
Ho trovato un contesto molto simpatico e vivace e la curiosità intorno ai due campioni che ho portato è stata buona. Firenze d'altronde non potrebbe essere diversamente. Polo dell'arte, oggi è ancora fucina di artigianato e design fuori dagli schemi aulici lombardi e classici che conosciamo. Un'associazione Altrove che si può definire un hub, anello di congiunzione e promozione di tante esperienze di ricerca, ricche di contenuti e voglia di contare. Dei talenti l'ho già visti. Gli 'artigiani digitali' che ri-scoprono dei materiali e delle lavorazioni che possono dare nuova linfa al made in italy. Per altre info vedere http://www.sourcefirenze.it/ Francesco Del Zompo |
10/09/15
Que Viva L'Aquila!
Questa
volta non posso scrivere usando la terza persona (come sarebbe
corretto) per “raccontare” la favola della maratona jazz che si è
svolta a L’Aquila il 6 settembre. Non posso usare, in questo
racconto, il distacco di chi recensisce quando gli occhi hanno visto
e sentito il gelo della morte di un città ma anche il calore di
50/60 mila persone accorse non soltanto perché amanti del jazz ma,
soprattutto, per testimoniare la propria voglia civile di ridare
alito vitale a questa città martoriata e umiliata. Se il terremoto
l’ha ferita nella carne il potere ladro, corrotto, osceno oltre
ogni limite (i nomi li conosciamo tutti!) l’ha espropriata, l’ha
calpestata ed umiliata nel suo tessuto umano, urbano e civile. I
crimini commessi a L’Aquila, contro la civiltà e l’umanità,
sono stati perpetrati con fredda determinazione: pensare ad una
Norimberga è troppo giacobino? Questa
maratona è stata un immenso contrappunto: da una parte i puntelli,
le impalcature e gli scheletri dei palazzi violentati e dall’altra
la gioia di esserci, la frenesia di rincorrere i vari concerti, la
fraternizzazione senza retorica tra perfetti sconosciuti: c’era
sempre qualcuno disposto a stringersi per regalarti qualche
centimetro di asfalto su cui sederti ad ascoltare! C’era
sui volti-stravolti, da ore ed ore di pellegrinaggi da una “location”
all’altra, il sorriso di chi ascolta ottima musica. Paolo
Di Sabatino in
Piazza Santa Margherita, Javier
Girotto e
Paolo
Fresu sulla
Scalinata di San Bernardino, Carlo
Morena, Raffaele Casarano e Mirko Signorile, Francesco Cafisoe Mauro
Schiavone, Petrina, Antonello Salis ai
Portici di San Bernardino, il Quartetto
Alborada nella
chiesa di S.Giuseppe artigiano, Enrico
Zanisi, Dado Moroni nella
Basilica di San Bernardino, Enrico
Rava, Danilo Rea, Rita Marcotulli e Maria Pia De Vito
al Duomo sono le perle che ho potuto inanellare non avendo il dono
dell’ubiquità come S.Antonio (ma l’ho tanto desiderato!): i
nostri sorrisi erano quelli di chi, nota dopo nota, riusciva a
sognare la favola in cui gli antichi muri de L’Aquila si
scrollavano di dosso la turpitudine di tubolari e ponteggi da zona
rossa (per la vergogna!!) per riaccogliere i propri abitanti
nell’antica e severa bellezza delle loro architetture e, insieme,
tornare a vivere. Ma se
quella vissuta domenica era la città simile a quella
“come-dovrebbe-essere”, quella che mi ha accompagnato al
parcheggio di Collemaggio, ormai notte, era invece la città dei
vicoli incatenati, dei muri sbriciolati, dei silenzi irreali della
morte e dell’abbandono, la stessa – o pressappoco – dei giorni
di sempre: da quel 6 aprile…e con tanta mestizia sono tornato in
“questa” Italietta.
Francesco Di Giuseppe
09/09/15
“Devils & Dust” *
Frau Angela: dal cinismo finanziario (Grecia) al cinismo umanitario (accoglienza profughi).
Calcoli, non sentimentalismi.
Ma evviva, poteva andar peggio, in questa Europa di nani solo diavoli & polvere.
*Fear's a powerful thing
It can turn your heart black you can trust
It'll take your God filled soul
And fill it with devils and dust
It can turn your heart black you can trust
It'll take your God filled soul
And fill it with devils and dust
[Bruce Springsteen – 2005]
Pier Giorgio Camaioni
04/09/15
In attesa di UT numero 50...
Iniziamo
con dei “giochi” su UT50... Chi li eseguirà tutti (5), con
evidenza scansionata e postata su fb, avrà in premio una t-shirt col
logo del 50°.
Ecco
le coordinate tecniche per il numero di UT numero 50. Il tema è
“Noi”.
Racconti
e pensieri: max 1250 caratteri, spazi inclusi
Poesie:
max 10 righe di 60 battute, spazi inclusi
Scadenza:
30 settembre 2015
Questa
volta la sfida è nella sfida: rompere gli schemi. Già scrivere un
racconto breve per UT comporta uno sforzo suppletivo di sintesi; 2800
battute spazi inclusi non sono uno scherzo ma una perversione. Usarne
1250 sfiora l'impossibile, e a noi l'impossibile piace. Chi ce lo
avrebbe mai detto, in quel lontano marzo 2007, che UT avrebbe
festeggiato 50 numeri bimestrali? Eppure è accaduto, segno
inequivocabile che bastano gli sforzi umani per compiere piccoli
miracoli. Le collaborazioni sono aperte a tutti, ma per l'occasione,
ci riserviamo inviti per coloro che UT l'hanno iniziata e portata
avanti. L'unico pagamento sarà la copia in omaggio che i
collaboratori riceveranno a domicilio (per i francobolli ci stiamo
attrezzando). Ora tocca a voi, collaboratori e aspiranti tali. Mano
alla penna e sursum corda...
03/09/15
#OPPURERIDI La Popsophia dell’umorismo. "Cappello di guardia". Lectio Pop
E’ certo un caso, che il panama di Massimo Donà (filosofo, musicista jazz, accademico) occupi con prepotenza il campo della mia foto, però sembra messo lì apposta a far da guardia, in questo incontro sul tema delle parole: perché la brillante testa che c’è sotto è una di quelle che la parola la cura, la soppesa, ne fa materia di un parlare elevato e rigoroso, di un ragionare e dimostrare che come anche il jazz procede per guizzi e improvvisazioni e fluisce argomentando senza mai perdersi.
Chi meglio di lui, dunque - lo abbiamo ascoltato nelle precedenti giornate del Festival e oggi è con noi tra il pubblico - potrà da sotto l’inseparabile panama “sorvegliare” i suoi colleghi filosofi che dibattono sulle parole: su quelle che non vorremmo più ascoltare perché intossicate da retorica, abuso, moda, ignoranza, e quelle di cui invochiamo – sommessi, intimiditi dal frastuono di una lingua usata a casaccio – una riscoperta di senso.
In apertura è Luca Mastrantonio, autore dell’acuminato “Pazzesco! Dizionario ragionato di un italiano esagerato”, a scegliere per noi gli esempi agghiaccianti di una lingua forse malata terminale e a farci ridere amaro: del gergo dei social, dei borborigmi dei politici, del giornalismo-strillone. Penso, perché proprio oggi scompare il grande Oliver Sacks, a quel suo paziente, a quell’ “Uomo che scambiò sua moglie per un cappello” inconsapevole del danno cerebrale che gli impedisce di associare i nomi alle cose e gli fa credere che la testa della moglie sia un cappello: allo stesso modo la comunicazione nella società di oggi procede ignara delle proprie metastasi, incapace di “intendere quel che vuol dire”. Una lingua folle, quella di oggi - osserva Mastrantonio - molto simile alla minacciosa neo-lingua dell’orwelliano “1984”.
Una lingua “impazzita” può rinsavire? Certo non basta spazzarne via le escrescenze malate; secondo Simone Regazzoni altrettanto importante è restituire senso al suo lessico, ripartire da una riscoperta dei suoi significati profondi. L’esempio viene da alcune parole-chiave che condensano le dinamiche sociali del nostro tempo: prima fra tutte proprio la parola “dialogo”, di cui abbiamo smarrito l’originale significato platonico di scambio da cui nasce la scoperta di qualcosa di nuovo (e in tal senso, dice il filosofo, il “dialogo” per eccellenza è quello amoroso). Il dialogo invece è oggi mero “scambio di atti linguistici” che indicano un orizzonte di senso già dato. come una partita a tennis di cui sappiamo già ogni mossa.
Abbiamo parole abusate, parole la cui apparente valenza positiva sottende ipocrisie ben incuneate nel tessuto sociale: la furba liberalità di facciata della parola tolleranza definisce piuttosto un rapporto gerarchico per il quale accettiamo l’altro senza riconoscerlo, perché il suo nucleo di alterità è forte e ci respinge; altrettanto ipocrita la “modestia” che nasconde l’assenza di coraggio nell’esposizione del proprio valore: tattica reattiva che nella lotta per il riconoscimento ci evita di esporci lasciando all’altro il potere del riconoscimento stesso.
Platone è evocato anche nell’intervento di Cesare Catà, che indica negli aggettivi “platonico” e “pindarico” due parole a cui urge restituire dignità e senso: ci giungono dal mondo antico ed entrambe sollecitano questioni tutt’altro che astratte, legate anzi alle cose in maniera viva, profonda. E come ”pindarico”, nel significare il volo più ardito, è ciò che finisce per toccare il cuore più profondo del problema, così “platonico” è ciò che risale fino all’essenza delle cose; in tal senso lo stesso “amore platonico” è esperienza così intensa da essere anche esperienza del corpo. Così, scherza Catà, “quando la vostra ragazza vi dirà di volere un amore platonico, allora potete saltarle addosso…”.
Numerosi gli spunti di riflessione, in quest’ora di dibattito vivace ma serio, coi filosofi a giocare tra le parole e il pubblico a lanciare in aria con gusto quelle che ognuno maggiormente detesta. Un nutrito elenco, c’era da aspettarselo: da sinergia a sostenibilità, a capitalismo, all’orrido in-qualche-modo, al letale assolutamente e via demolendo. Strano però che non si sia nominato il termine SUV, acronimo dello stupido macchinone ostentato dal 24% degli italiani (fonte Quattroruote). Sarà che nel verde parcheggio del Castello della Rancia - più di 150 auto, tutte medio-utilitarie con rare berline di lusso - ci sono incredibilmente solo 4 SUV. Un bel segnale, no? A meno che non appartengano ai 4 filosofi…
Sara Di Giuseppe
22/08/15
Cos'è UT
UT non è solo una rivista d'arte
e fatti culturali, è un mondo a parte, quasi un'isola. UT non ha
padrini né madrine. Vengono pubblicati i racconti e le poesie di chi
sa scrivere e ha qualcosa da dire (scrivere bene, da solo, non
basta). A UT piacciono le contaminazioni, gli stili personali, le
idee diverse, la libertà creativa e chi sa destare emozioni in chi
legge. UT non ha numeri di pagina. È una rivista stampata su
cartoncino pregiato delle Cartiere Fabriano e della Fedrigoni. Per le
nostre pubblicazioni usiamo tre tipi diversi di carta che, alla fine,
danno gioia e piacere anche al tatto. UT edita in ogni numero
un'opera d'arte originale, contrassegnata in numeri romani per i
collaboratori, in numeri arabi per chi vuole acquistarla. UT si
“annuncia” sempre, e a ogni “annunciazione” si fa
accompagnare da musicisti, attori, fini dicitori e artisti d'arte
varia. UT è UT, il resto è mercanteggiamento. UT è aperta a tutti
e tutti possono collaborare... al resto pensiamo NOI.
18/08/15
Scoperto UT, il nono pianeta del sistema solare: è dieci volte la terra. Finalmente si sono accorti di NOI
Un
enorme pianeta, dieci volte più grande della Terra, potrebbe
orbitare intorno al sole ai confini del Sistema Solare. È
l’incredibile scoperta alla quale sono giunti alcuni ricercatori.
E
in molti sarà forte il mitologico richiamo al ‘pianeta nascosto’.
I
ricercatori hanno individuato un pianeta nano chiamato Uttiano-2012 VP113,
e altri 900 oggetti, in orbita in una formazione simile.
Uttiano-VP113
è stato osservato la prima volta nel novembre 2012 e annunciato solo
poco tempo fa. E ‘il pianeta nano più lontano in orbita intorno al
nostro Sole. Ha un diametro di circa 450 km e si trova al di là
della zona ricca di comete conosciuta come ‘cintura di Kuiper’,
in una regione al limite del sistema solare chiamata Nube
di Oort.
Uttiano-2012
VP113 è circa la metà del diametro di un altro pianeta nano, Sedna,
scoperto una decina di anni fa, e si trova 80 volte più lontano dal
Sole rispetto alla Terra. Ed è nella somiglianza delle orbite di
Sedna e Uttiano-2012 VP113 che nasce la scoperta della possibile esistenza
di un ancora sconosciuto pianeta, definito ‘Super Terra’ per le
sue dimensioni, ai confini del nostro sistema planetario. e si dice
che sia retto da un organismo chiamato La Redazione. I due pianeti
nani sono tra le migliaia di oggetti che si crede formino la nube di
Oort interna e il fatto che abbiano un’orbita simile suggerisce la
presenza di un pianeta fino a 10 volte le dimensioni della Terra che
ne influenza il ‘comportamento’. Il dottor Scott Sheppard, della
Carnegie Institution, ha detto: ‘La ricerca di questi oggetti
lontani interni della nube di Oort al di là di Sedna e Uttiano-2012 VP113
dovrebbe continuare in quanto potrebbero dirci molto su come il
nostro sistema solare si è formato ed evoluto. I
ricercatori hanno usato una fotocamera Dark Energy (Decam), nelle
Ande cilene, per la scoperta di Uttiano-2012 VP113 (che si dice sia retto
da un organismo chiamato La Redazione). Hanno quindi utilizzato il
vicino telescopio Magellan per determinare la sua orbita e ottenere
informazioni dettagliate sulla sua superficie.
Il
pianeta nano Sedna 90.377 è stato scoperto nel 2003. Ha un’orbita
simile alla recente scoperta Uttiano-2012 VP113.
Le
due orpite messe insieme, secondo lo studio Carnegie, indicano la
potenziale presenza di un pianeta enorme, fino a 10 volte le
dimensioni della Terra, ad influenzare l’orbita di questi due
pianeti nani.
I
risultati sono pubblicati sulla rivista Nature.
Copiato
(letteralmente e non) da www.voxnews.info
15/08/15
Il nuovo "must" uttiano: Annunciazione, annunciazione
A metà degli anni ''70, l'affermatissimo trio "La smorfia" diede vita a uno degli sketch che contribuirono a renderlo immortale. Lello Arena era il semi-cieco arcangelo Gabriele che, inviato da Dio sulla terra per dare la buona notizia della gravidanza a Maria, sbaglia completamente indirizzo e la porta (sempre la notizia), a una ignara moglie di un pescatore, Massimo Troisi (la moglie e non il pescatore). Gioco degli equivoci comicissimo (Enzo Decaro, cherubino, viene scambiato da Troisi per un venditore di libri), lo sketch passò alla storia per il tormentone "Annunciazione, annunciazione" che Lello Arena urlava, aiutandosi con il suono di una trombetta, a Massimo Troisi scambiato per Maria. Ironia soft e per nulla blasfema, lo sketch, che si intitolava ufficialmente "Natività", prendeva lievemente in giro la religione con un tono tanto sostenibile che non costò nulla al trio che, considerati i tempi, avrebbe rischiato la galera per vilipendio alla religione di stato. A distanza di quarant'anni, UT ripropone "Annunciazione, annunciazione" perché stanca e ossessionata dal termine "presentazione". Oggi tutti presentano tutto, non solo l'amante alla moglie spacciandola per la cugina, ma anche quelli che scrivono cose destinate solo a disboscare impunemente i boschi e la foresta amazzonica (cellulosa a gogò). Per non cadere nel tranello dei termini usati [a sproposito], UT ha deciso di rinverdire l'arcangelo Gabriele interpretato da Lello Arena. Infatti, iniziando dal numero 50 cominceremo ad Annunciare e non più a Presentare. Ogni velleità profetica, però, è rigorosamente bandita.
09/08/15
Riflessioni dopo le 16 e 35. La storia dell'ultimo viaggio di un cane raccontata dal suo "padrone"
Ci si lascia involontariamente, controvoglia, a malincuore, a volte è naturale, a volte è contronatura, delle volte il distacco avviene col nostro consenso, a volte liberando il nostro corpo. Ma è strano, è dato a pochi la conoscenza diretta del ‘distacco’, quello definitivo. Ha dei colori non proprio accattivanti, violacei, sangue misto a terra e dei suoni impercettibili che superano le nostre percezioni più comuni. Ha uno sguardo maturo, severo, mai appagato del nostro, quasi un rimprovero alla nostra permanenza. No, è solo un richiamo che ti lascia attonito.
Sì, ho visto il mio cane morire in braccio alla sua intoccabile padrona, mia moglie, che fu fatta sorella e madre prima che se ne accorgesse l'anagrafe. Lui era un orfano già maturo di 2 anni e da allora ne ha passati 15 con noi, o poco meno. Allora aveva già i segni della sofferenza, della lotta tra simili incattiviti dalla prigionia più o meno vigilata. L'amore e la tenerezza la conoscemmo insieme a lui, con le mie piccole figlie, e per loro fu un toccasana, una guida di responsabilità e libertà insieme. Prendere un animale in casa è a rischio di surrogazione di qualche altra presenza assente. Non fu così per noi. Piuttosto un compagno di viaggio e gite 'fuoripista' che altrimenti avremmo erroneamente evitato. Per me una presenza a volte scomoda, a volte rumorosa, a volte piacevole. Sì, insomma, come per delle persone 'altre'. Quindi uno di noi.
Dopo di lui ne tirammo fuori altri due dai canili, ma queste sono e saranno altre storie.
Rispolvero il testo sotto, scritto in un'occasione uttiana e dedicato anche a lui (come metafora delle difficoltà familiari e personali). Un omaggio a Billy 'il bello' (aggiungevo io i primi tempi), perché mi ha fatto conoscere alcune cose di me attraverso lui, e soprattutto di non avere paura di fronte alla morte. Circostanze che si imparano anche attraverso loro, animali come noi.
A sei zampe
Prima di fare questo mestiere ho esercitato, in un Circo, l’arte dell’equilibrismo. Sfilavo sopra il pubblico con piatti, bicchieri, sedie e sfere giganti tra le mani. Ho affinato l’arte del peso e del contrappeso ed eccoci qua a impaginare testi, immagini, disporre colori, cercando di dare un senso e soprattutto un giusto ordine e posto a tutto, magari eliminando o al contrario inserendo qualcos’altro perché il messaggio arrivi più forte e chiaro.
Ancora un passo e sono sulla porta di casa. Lascio le fantasie che mi hanno accompagnato per strada e accarezzo con lo sguardo mia figlia che mi saluta. In silenzio, con flemma e riverente cura dispongo le poche cose mancanti a tavola rispettando le priorità e gli ordini stabiliti.
Ora tu mi guardi, con gli occhi da attesa e mi scruti nei pensieri, cercando di carpirne una parola d’affetto, un gesto. Oh come siamo stati felici un tempo! Ci bastavano poche uscite al mese per ristorarci da tutto. Le discussioni, le pigrizie, le mancate carezze passavano e volavano via come frutti di tarassaco in estate. Scrollavamo le nostre pulci e via a divertirci sotto il primo sole che si affacciava. Senza badare a chiassose comitive, cercavamo il nostro spazio dove ruzzolare come gomitoli impazziti e male avvolti. Annusavamo l’erba da veri segugi, cercandovi presenze passate e lì strofinavamo i nostri corpi per lasciare il segno del nostro passaggio.
T’ho amato, anche se in silenzio, t’ho assecondato in tutte le tue manie, le tue capricciose stranezze che non finivano mai di appagarsi. Ce n’era sempre una da assecondare come rimasta in attesa dopo secoli di privazione. Ma le amavo un attimo dopo queste tue bizze, perché mi facevi partecipe della tua gioia e l’allegria prendeva il posto dei pensieri anche i più cupi. Riuscivi a trascinarmi, quasi come una renna fa con la sua slitta, dovunque potessi esprimerti in libertà. Gli spazi aperti come le salite più ripide, erano occasioni per spiegare la tua anima indipendente, leggera, solitaria ma con me al tuo fianco. Ora, mio spirito dolente, perché non rispondi più al mio cenno, al suono della mia voce, al flebile sibilo della mia bocca? Sù, muoviti ancora, lascia questo posto, articola le tue ossa malconce e che possano ancora correre su e giù per i gradini di questa casa. Beviamo insieme ancora qualche goccia dall’Oblio e a ritroso ricerchiamo le cose per la prima volta, così definitivamente distratti calchiamo nuovi fili d’erba, cresciuti a sconosciuto manto. Io e te, a sei zampe, ritroveremo l’arte dell’equilibrismo presso un qualsiasi Circo, ancora capace di scommettere su vecchi artisti della composizione scomposta, dell’equilibrio precario, dell’architettura senza travi, dei colori scoloriti e della fantasia contenuta. Vedrai caro amico, che il mio dibattere assieme al tuo abbaiare vedranno il silenzio solo dopo gli ultimi applausi.
P.S.: Trasmetto questa mail per gli amici che lo hanno conosciuto, o anche no, ma che hanno o hanno avuto una storia simile su cui riflettere.
Francesco Del Zompo
Sì, ho visto il mio cane morire in braccio alla sua intoccabile padrona, mia moglie, che fu fatta sorella e madre prima che se ne accorgesse l'anagrafe. Lui era un orfano già maturo di 2 anni e da allora ne ha passati 15 con noi, o poco meno. Allora aveva già i segni della sofferenza, della lotta tra simili incattiviti dalla prigionia più o meno vigilata. L'amore e la tenerezza la conoscemmo insieme a lui, con le mie piccole figlie, e per loro fu un toccasana, una guida di responsabilità e libertà insieme. Prendere un animale in casa è a rischio di surrogazione di qualche altra presenza assente. Non fu così per noi. Piuttosto un compagno di viaggio e gite 'fuoripista' che altrimenti avremmo erroneamente evitato. Per me una presenza a volte scomoda, a volte rumorosa, a volte piacevole. Sì, insomma, come per delle persone 'altre'. Quindi uno di noi.
Dopo di lui ne tirammo fuori altri due dai canili, ma queste sono e saranno altre storie.
Rispolvero il testo sotto, scritto in un'occasione uttiana e dedicato anche a lui (come metafora delle difficoltà familiari e personali). Un omaggio a Billy 'il bello' (aggiungevo io i primi tempi), perché mi ha fatto conoscere alcune cose di me attraverso lui, e soprattutto di non avere paura di fronte alla morte. Circostanze che si imparano anche attraverso loro, animali come noi.
A sei zampe
Prima di fare questo mestiere ho esercitato, in un Circo, l’arte dell’equilibrismo. Sfilavo sopra il pubblico con piatti, bicchieri, sedie e sfere giganti tra le mani. Ho affinato l’arte del peso e del contrappeso ed eccoci qua a impaginare testi, immagini, disporre colori, cercando di dare un senso e soprattutto un giusto ordine e posto a tutto, magari eliminando o al contrario inserendo qualcos’altro perché il messaggio arrivi più forte e chiaro.
Ancora un passo e sono sulla porta di casa. Lascio le fantasie che mi hanno accompagnato per strada e accarezzo con lo sguardo mia figlia che mi saluta. In silenzio, con flemma e riverente cura dispongo le poche cose mancanti a tavola rispettando le priorità e gli ordini stabiliti.
Ora tu mi guardi, con gli occhi da attesa e mi scruti nei pensieri, cercando di carpirne una parola d’affetto, un gesto. Oh come siamo stati felici un tempo! Ci bastavano poche uscite al mese per ristorarci da tutto. Le discussioni, le pigrizie, le mancate carezze passavano e volavano via come frutti di tarassaco in estate. Scrollavamo le nostre pulci e via a divertirci sotto il primo sole che si affacciava. Senza badare a chiassose comitive, cercavamo il nostro spazio dove ruzzolare come gomitoli impazziti e male avvolti. Annusavamo l’erba da veri segugi, cercandovi presenze passate e lì strofinavamo i nostri corpi per lasciare il segno del nostro passaggio.
T’ho amato, anche se in silenzio, t’ho assecondato in tutte le tue manie, le tue capricciose stranezze che non finivano mai di appagarsi. Ce n’era sempre una da assecondare come rimasta in attesa dopo secoli di privazione. Ma le amavo un attimo dopo queste tue bizze, perché mi facevi partecipe della tua gioia e l’allegria prendeva il posto dei pensieri anche i più cupi. Riuscivi a trascinarmi, quasi come una renna fa con la sua slitta, dovunque potessi esprimerti in libertà. Gli spazi aperti come le salite più ripide, erano occasioni per spiegare la tua anima indipendente, leggera, solitaria ma con me al tuo fianco. Ora, mio spirito dolente, perché non rispondi più al mio cenno, al suono della mia voce, al flebile sibilo della mia bocca? Sù, muoviti ancora, lascia questo posto, articola le tue ossa malconce e che possano ancora correre su e giù per i gradini di questa casa. Beviamo insieme ancora qualche goccia dall’Oblio e a ritroso ricerchiamo le cose per la prima volta, così definitivamente distratti calchiamo nuovi fili d’erba, cresciuti a sconosciuto manto. Io e te, a sei zampe, ritroveremo l’arte dell’equilibrismo presso un qualsiasi Circo, ancora capace di scommettere su vecchi artisti della composizione scomposta, dell’equilibrio precario, dell’architettura senza travi, dei colori scoloriti e della fantasia contenuta. Vedrai caro amico, che il mio dibattere assieme al tuo abbaiare vedranno il silenzio solo dopo gli ultimi applausi.
P.S.: Trasmetto questa mail per gli amici che lo hanno conosciuto, o anche no, ma che hanno o hanno avuto una storia simile su cui riflettere.
Francesco Del Zompo
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