Una
memorabile Lectio magistralis di Jazz e di Swing, quella di Lino
Patruno.
A partire dalle origini, da quel Girolamo La Rocca da Salaparuta
avventurosamente sbarcato in America col suo bagaglio di musica da
banda di paese di Sicilia, che col nome d’arte Nick
La Rocca produsse
nel 1917 il primo disco della storia del Jazz. Cotton
Club delle grandi occasioni, ci sentiamo tutti come sui banchi di
scuola, nell’ascoltare rapiti questo prof affettuoso e speciale coi
suoi 6 “assistenti”: la lezione serale ha ripercorso più di 60
anni di Jazz “combattuti” in prima persona vicino ai maestri più
autorevoli, con le più famose orchestre, da protagonista e da
testimone, nei luoghi fisici dove il Jazz è nato e poi si è
trasformato, in tutte le sue vicissitudini.
In certi momenti ci è parso proprio di essere a New Orleans e a Chicago (complice casuale la scenografia dell’ex birrodotto con suo soffitto di scuri tubi di rame), ma senza l’atmosfera equivoca, e l’aria irrespirabile di tabacco e whisky, senza mescolanza di razze, né donne luccicanti immancabilmente nere dalla voce “nera”, senza sanguinosi regolamenti di conti. Senza - fuori - le rutilanti luci al neon dei Casino e dei locali notturni, i taxi in fila e le limousine, gli sbuffi di fumo e vapore dei riscaldamenti esalanti dal sottosuolo, i graticci metallici delle scale a bilanciere arrampicate sui palazzi di mattoni rossi… C’è stato invece lo Swing, tanto Swing, quello profondo e puro, il vero Swing. Suonato come si deve. Lino Patruno musicista di banjo, e anche impareggiabile presentatore-cantante-attore-cabarettista… che perfino la TV (quella intelligente di una volta) ci faceva gustare. Il calabrese della Milano dei “Gufi”. Il piccolo-grande signore del Jazz-Swing and Blues. Non gli interessano gli altri tipi di Jazz, e a dire il vero neanche a noi, stasera. Qualcuno lo troverà schematico (gli estenuanti “giri”, quei “levare” quasi ossessivi, i metodici assolo in rigida sequenza…), e poi antico, decadente, poco fantasioso, sgradevolmente romantico, ma lo Swing è l’origine di tutto, anche degli “altri” Jazz. Elementare ma affatto facile, complesso a volte, sempre d’effetto. Evocativo, misterioso, senza fine. “Base” per infiniti sviluppi armonici e ritmici. Non necessariamente lento, e tuttavia quando è molto lento e scandito con sapiente garbo, diventa struggente performante ammaliante pensante inaspettato. In certe dosi può creare dipendenza, come una cosa inutile ma bella. Quindi utile. Anche quei 6 ci hanno dato dentro, un ensemble quasi orchestra d’epoca: Michael Suprik l’americano (tromba), in scena vagamente Joe Coker; Carlo Ficini il trombonista vagamente Massimo Catalano (il “filosofo” di Renzo Arbore, che di Swing s’intende). E gli altri, con la brava Silvia Manco (pianista-vocalist), che invece del “coda” d’ordinanza avrebbe meritato un piano verticale della serie non-sparate-sul(la)-pianista. Di certo, tutti musicisti-personaggi. Specie l’inossidabile Gianni Sanjust (insoddisfatto, quasi incupito dal suo capriccioso clarinetto, stasera), teatrale cera di impassibile maggiordomo inglese, capelli lucenti e nerissimi, solidi ed autoritari come i parafanghi (neri) di una regale Buick del ’47. Come un Errol Gardner, la cui impressionante orchestra nulla poteva per indebolirne la brillantina. Sarà lui, il nostro Gianni Sanjust a deliziarci in ultimo con una languida-ma-non-troppo “Amapola” d’antan (non il suo pezzo migliore, ma se diventi famoso per quella, che ci puoi fare?).
In certi momenti ci è parso proprio di essere a New Orleans e a Chicago (complice casuale la scenografia dell’ex birrodotto con suo soffitto di scuri tubi di rame), ma senza l’atmosfera equivoca, e l’aria irrespirabile di tabacco e whisky, senza mescolanza di razze, né donne luccicanti immancabilmente nere dalla voce “nera”, senza sanguinosi regolamenti di conti. Senza - fuori - le rutilanti luci al neon dei Casino e dei locali notturni, i taxi in fila e le limousine, gli sbuffi di fumo e vapore dei riscaldamenti esalanti dal sottosuolo, i graticci metallici delle scale a bilanciere arrampicate sui palazzi di mattoni rossi… C’è stato invece lo Swing, tanto Swing, quello profondo e puro, il vero Swing. Suonato come si deve. Lino Patruno musicista di banjo, e anche impareggiabile presentatore-cantante-attore-cabarettista… che perfino la TV (quella intelligente di una volta) ci faceva gustare. Il calabrese della Milano dei “Gufi”. Il piccolo-grande signore del Jazz-Swing and Blues. Non gli interessano gli altri tipi di Jazz, e a dire il vero neanche a noi, stasera. Qualcuno lo troverà schematico (gli estenuanti “giri”, quei “levare” quasi ossessivi, i metodici assolo in rigida sequenza…), e poi antico, decadente, poco fantasioso, sgradevolmente romantico, ma lo Swing è l’origine di tutto, anche degli “altri” Jazz. Elementare ma affatto facile, complesso a volte, sempre d’effetto. Evocativo, misterioso, senza fine. “Base” per infiniti sviluppi armonici e ritmici. Non necessariamente lento, e tuttavia quando è molto lento e scandito con sapiente garbo, diventa struggente performante ammaliante pensante inaspettato. In certe dosi può creare dipendenza, come una cosa inutile ma bella. Quindi utile. Anche quei 6 ci hanno dato dentro, un ensemble quasi orchestra d’epoca: Michael Suprik l’americano (tromba), in scena vagamente Joe Coker; Carlo Ficini il trombonista vagamente Massimo Catalano (il “filosofo” di Renzo Arbore, che di Swing s’intende). E gli altri, con la brava Silvia Manco (pianista-vocalist), che invece del “coda” d’ordinanza avrebbe meritato un piano verticale della serie non-sparate-sul(la)-pianista. Di certo, tutti musicisti-personaggi. Specie l’inossidabile Gianni Sanjust (insoddisfatto, quasi incupito dal suo capriccioso clarinetto, stasera), teatrale cera di impassibile maggiordomo inglese, capelli lucenti e nerissimi, solidi ed autoritari come i parafanghi (neri) di una regale Buick del ’47. Come un Errol Gardner, la cui impressionante orchestra nulla poteva per indebolirne la brillantina. Sarà lui, il nostro Gianni Sanjust a deliziarci in ultimo con una languida-ma-non-troppo “Amapola” d’antan (non il suo pezzo migliore, ma se diventi famoso per quella, che ci puoi fare?).
Ti
aspettiamo per l’ottava volta in Ascoli al Cotton, caro
giovanissimo Lino Patruno. Ciao.
PGC
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