La
normale procedura degli orchestrali quando entrano in palcoscenico:
sbucano dalle ali e prendono posto in ordine senza fretta e senza
indugi, mai nessuno che sbagli sedia. Tutti in uguale scuro, ovvio,
ma più fantasioso il nero delle musiciste alle viole, ai violini, al
primo violino, che dà anche il La.
Qualcuno lo riconosci, specie abbinandolo al proprio strumento. Ma
stasera sembrano un po’ diversi, facce nuove, come se per
l’occasione si fosse allargato l’organico: le “strane”
percussioni, qualche ottone in più, uno-due contrabbassi in meno…
Col direttore Stefano Fonzi, munito di bacchetta, che non ha la faccia del direttore. Poi il pubblico in platea: più giovane, più mobile, che armeggia con gli smartphone finchè non si comincia. Pochi cappelli, nessuna pelliccia. E molto diverso pure questo “dolce” Teatro delle Api dal ricco e austero Teatro dell’Aquila dove FORM è di casa (ce ne vogliono di api, per fare un’aquila), ma l’ottima Filarmonica Marchigiana stasera ha un asso nella manica: Danilo Rea, pianista jazz prestato alla classica. Tre rintocchi di campana/gong, come alla Scala: si comincia. Pare subito un film. Čajkovskij certo non andava al cinema, e l’ouverture-fantasia di Romeo e Giulietta non gliela commissionò un regista. Eppure, eseguita da FORM e Rea sembra l’intensa colonna sonora di un film in costume, nella prima parte; dopo, quella di un western alla Sergio Leone (ma difficile immaginarvi Romeo & Juliet), per finire con un simil-tango raffinato pur senza passione argentina. Una forma di Classic in Jazz. Con Ravel (Pavane pour une infante défunte), lo stesso: un altro film. Più ambientato nelle moorland inglesi, o su scogliere d’Irlanda: ritmi di pioggia lenta e cadenzata, raffiche di vento, mutamenti di tempo (non meteorologico) incitati in libertà da Stefano Fonzi dentro un motivo ricorrente come di ballata. Tutto nel jazz di Danilo Rea, che alterna le sue sonorità energiche a fraseggi e arpeggi meno schematici di quelli classici. Intrigante concerto. Fonzi direttore-arrangiatore ben affiatato con Rea, dirige più con amicizia che con distaccata autorevolezza. Quando si svagano coi Beatles (Hey Jude), De Andrè, Gerschwin e perfino Puccini, tutto fila “facile” e insieme “elegante”: piacevolezza e rigore esecutivo. Ogni tanto senti sapori di Pino Daniele. FORM davvero in forma, senza strafare. Anche il jazz è nelle sue corde. E Danilo Rea mostra la sua impronta, quando arroventa gli acciai, nelle invenzioni, nelle dolci frenate che non t’aspetti. L’orchestra dietro respira e amplifica, o aspetta, o risponde, con l’anima classica che è in lei o con un imprevedibile “senso del ritmo” che, pure in Mozart, ha del sorprendente. È il Jazz, bellezza.
Col direttore Stefano Fonzi, munito di bacchetta, che non ha la faccia del direttore. Poi il pubblico in platea: più giovane, più mobile, che armeggia con gli smartphone finchè non si comincia. Pochi cappelli, nessuna pelliccia. E molto diverso pure questo “dolce” Teatro delle Api dal ricco e austero Teatro dell’Aquila dove FORM è di casa (ce ne vogliono di api, per fare un’aquila), ma l’ottima Filarmonica Marchigiana stasera ha un asso nella manica: Danilo Rea, pianista jazz prestato alla classica. Tre rintocchi di campana/gong, come alla Scala: si comincia. Pare subito un film. Čajkovskij certo non andava al cinema, e l’ouverture-fantasia di Romeo e Giulietta non gliela commissionò un regista. Eppure, eseguita da FORM e Rea sembra l’intensa colonna sonora di un film in costume, nella prima parte; dopo, quella di un western alla Sergio Leone (ma difficile immaginarvi Romeo & Juliet), per finire con un simil-tango raffinato pur senza passione argentina. Una forma di Classic in Jazz. Con Ravel (Pavane pour une infante défunte), lo stesso: un altro film. Più ambientato nelle moorland inglesi, o su scogliere d’Irlanda: ritmi di pioggia lenta e cadenzata, raffiche di vento, mutamenti di tempo (non meteorologico) incitati in libertà da Stefano Fonzi dentro un motivo ricorrente come di ballata. Tutto nel jazz di Danilo Rea, che alterna le sue sonorità energiche a fraseggi e arpeggi meno schematici di quelli classici. Intrigante concerto. Fonzi direttore-arrangiatore ben affiatato con Rea, dirige più con amicizia che con distaccata autorevolezza. Quando si svagano coi Beatles (Hey Jude), De Andrè, Gerschwin e perfino Puccini, tutto fila “facile” e insieme “elegante”: piacevolezza e rigore esecutivo. Ogni tanto senti sapori di Pino Daniele. FORM davvero in forma, senza strafare. Anche il jazz è nelle sue corde. E Danilo Rea mostra la sua impronta, quando arroventa gli acciai, nelle invenzioni, nelle dolci frenate che non t’aspetti. L’orchestra dietro respira e amplifica, o aspetta, o risponde, con l’anima classica che è in lei o con un imprevedibile “senso del ritmo” che, pure in Mozart, ha del sorprendente. È il Jazz, bellezza.
PGC
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