Si
dice che i cittadini di San Pietroburgo, dopo quel 3 gennaio 1890, si
salutassero non con un “Buongiorno”
ma con un “Hai
visto La Bella Addormentata?”:
tanto
clamoroso era stato, al suo debutto al Teatro Mariinskij, il successo
del balletto, commissionato dal Sovrintendente dei teatri imperiali
di San Pietroburgo, principe Vsevolozhsky, aPëtr Il’ič Čajkovskij
e da questi realizzato per il Balletto Imperiale Russo con la
coreografia e la collaborazione del già acclamatissimo Marius
Petipa.
Culmine di un cammino di recupero del balletto occidentale, in declino in Europa alla fine dell’epoca romantica, La Bella Addormentata è ”apoteosi del balletto”, trionfo di abilità virtuosistica e di tecnica accademica, “banco di prova affascinante e temibile per ogni corpo di ballo” (Dancevillage). Lo sfarzo dei costumi e delle scene (ben cinque, gli scenografi voluti da Vsevolozhsky, che si ispirarono alle illustrazioni di Gustave Doré per le fiabe di Perrault), e il costo complessivo della prima edizione, pari a un quarto del bilancio delle produzioni del Mariinskij per quell’anno, la dicono lunga sull’abbondanza di risorse umane ed economiche, ormai da tempo impensabili in Europa, che calamitavano molti maestri della coreografia francese verso la Russia zarista. Innumerevoli, nel tempo, le versioni della fiaba in danza, che lungi dal confinarla in una sorta di fissità museale, ne hanno continuamente rinnovato preziosità e virtuosismi: dalle versioni russe tra fine ‘800 e primi ‘900, a quelle europee della prima metà del secolo scorso, alla innovativa del ’66 con Nureyev e Fracci alla Scala di Milano, fino agli anni Novanta, da Roland Petit a Dowell, e al trasgressivo svedese Mats Ek, che nel ’96 l’attualizza trasformando la principessa Aurora in un’adolescente ribelle, e la puntura del fuso, nell’ago di una siringa per droga (con lieto fine, perché pur sempre di fiaba si tratta). Per la “Šípková Růženka” di oggi, il Národní Divadlo - Teatro Nazionale - di Praga ospita una Compagnia d’eccellenza, il Corpo di ballo del Teatro J.K.TYL di Plzeň (Pilsen), con la regia del coreografo Jiří Horák. Spettacolarità, fantasia, virtuosismi: l’intera gamma di temi del grande balletto classico vi si dispiega, in un insieme di abbagliante eleganza che fonde armonicamente il dramma dell’azione scenica con la tensione dei temi čajkovskiani: il vigore di fiati e percussioni delle scene corali, la melodia degli archi, gli struggenti assolo di violino. La prepotente solarità di questa versione ha la meglio sui chiaroscuri e sulla cupa ombra di morte che il sortilegio proietta sulla fiaba: il pietrificarsi del bosco (ne “La belle au bois dormant” di Perrault, il maschile “dormant” è riferito al bosco e non alla fanciulla) appare piuttosto come accidente necessario al dispiegarsi della vicenda e, mitigato nel suo potenziale tragico, conduce l’azione verso il finale trionfo dell’amore e della vita. Una scelta che, pur nel pregevole livello di tecnica e virtuosismo dell’insieme, sottrae qualcosa al pathos: l’esito è di sicura eleganza formale, e tuttavia meno coinvolgente sul piano della partecipazione emotiva. I festeggiamenti alla corte del re Floristano per la nascita della principessina Aurora; l’offerta di doni e auspici alla neonata da parte delle fate benigne; la vendetta della perfida maga Carabosse per la sua esclusione dalla festa, il cui conseguente maleficio prescrive la morte di Aurora al suo sedicesimo compleanno; il Ciambellano Catalabutte che l’ha combinata decisamente grossa (proprio una maga malmostosa così, ti dimentichi d’invitare?); il mortale maleficio mitigato, dalla Fata dei Lillà, nel sonno secolare che pietrificherà Aurora, la corte, l’intero bosco; l’incantesimo che conduce il principe Désiré (scapolo d’oro, va da sé) a trovare il bosco e la principessa; l’innamoramento istantaneo e il bacio che la risveglia; la festa finale coi preparativi per le nozze dei giovanissimi innamorati e raggianti. Questo il plot che si dispiega nei Tre atti e un Prologo del balletto, seguendo lo schema narrativo dell’arcinota fiaba di Perrault, nella quale occhieggia di lontano l’insospettabile antecedente che la ispira, la fiaba barocca del Pentamerone di Giambattista Basile “Sole, Luna e Talia” (col suo archetipo, il trecentesco Roman di Perceforest): narrazione cruda e inquietante, destinata ad un pubblico aristocratico e adulto, dove il bacio del principe è in realtà uno stupro, il risveglio è dato dai due figli (Sole e Luna) che ne sono il frutto, e il seguito ha caratteri da storie dell’orrore. Contenuto fortemente addomesticato dal Perrault de “I racconti di Mamma Oca”, il cui pubblico alto-borghese apprezzava veder trionfare i propri valori, specie quelli legati a modestia e remissività della figura femminile. Leggono ancora, i fanciulli di oggi nativi-digitalizzati e tele-tablet-narcotizzati, le bellissime fiabe feroci e catartiche, che popolarono il nostro immaginario infantile di orchi terribili, fate improbabili, perfide matrigne, barbablù sterminatori di mogli, lupi cattivi, streghe mangiatrici di bambini? Improbabile. Orchi, streghe e barbablù non li cercano nei libri di fiabe, li trovano ogni giorno, reali e infinitamente replicati su qualsiasi schermo. È il lieto fine, che manca.
Culmine di un cammino di recupero del balletto occidentale, in declino in Europa alla fine dell’epoca romantica, La Bella Addormentata è ”apoteosi del balletto”, trionfo di abilità virtuosistica e di tecnica accademica, “banco di prova affascinante e temibile per ogni corpo di ballo” (Dancevillage). Lo sfarzo dei costumi e delle scene (ben cinque, gli scenografi voluti da Vsevolozhsky, che si ispirarono alle illustrazioni di Gustave Doré per le fiabe di Perrault), e il costo complessivo della prima edizione, pari a un quarto del bilancio delle produzioni del Mariinskij per quell’anno, la dicono lunga sull’abbondanza di risorse umane ed economiche, ormai da tempo impensabili in Europa, che calamitavano molti maestri della coreografia francese verso la Russia zarista. Innumerevoli, nel tempo, le versioni della fiaba in danza, che lungi dal confinarla in una sorta di fissità museale, ne hanno continuamente rinnovato preziosità e virtuosismi: dalle versioni russe tra fine ‘800 e primi ‘900, a quelle europee della prima metà del secolo scorso, alla innovativa del ’66 con Nureyev e Fracci alla Scala di Milano, fino agli anni Novanta, da Roland Petit a Dowell, e al trasgressivo svedese Mats Ek, che nel ’96 l’attualizza trasformando la principessa Aurora in un’adolescente ribelle, e la puntura del fuso, nell’ago di una siringa per droga (con lieto fine, perché pur sempre di fiaba si tratta). Per la “Šípková Růženka” di oggi, il Národní Divadlo - Teatro Nazionale - di Praga ospita una Compagnia d’eccellenza, il Corpo di ballo del Teatro J.K.TYL di Plzeň (Pilsen), con la regia del coreografo Jiří Horák. Spettacolarità, fantasia, virtuosismi: l’intera gamma di temi del grande balletto classico vi si dispiega, in un insieme di abbagliante eleganza che fonde armonicamente il dramma dell’azione scenica con la tensione dei temi čajkovskiani: il vigore di fiati e percussioni delle scene corali, la melodia degli archi, gli struggenti assolo di violino. La prepotente solarità di questa versione ha la meglio sui chiaroscuri e sulla cupa ombra di morte che il sortilegio proietta sulla fiaba: il pietrificarsi del bosco (ne “La belle au bois dormant” di Perrault, il maschile “dormant” è riferito al bosco e non alla fanciulla) appare piuttosto come accidente necessario al dispiegarsi della vicenda e, mitigato nel suo potenziale tragico, conduce l’azione verso il finale trionfo dell’amore e della vita. Una scelta che, pur nel pregevole livello di tecnica e virtuosismo dell’insieme, sottrae qualcosa al pathos: l’esito è di sicura eleganza formale, e tuttavia meno coinvolgente sul piano della partecipazione emotiva. I festeggiamenti alla corte del re Floristano per la nascita della principessina Aurora; l’offerta di doni e auspici alla neonata da parte delle fate benigne; la vendetta della perfida maga Carabosse per la sua esclusione dalla festa, il cui conseguente maleficio prescrive la morte di Aurora al suo sedicesimo compleanno; il Ciambellano Catalabutte che l’ha combinata decisamente grossa (proprio una maga malmostosa così, ti dimentichi d’invitare?); il mortale maleficio mitigato, dalla Fata dei Lillà, nel sonno secolare che pietrificherà Aurora, la corte, l’intero bosco; l’incantesimo che conduce il principe Désiré (scapolo d’oro, va da sé) a trovare il bosco e la principessa; l’innamoramento istantaneo e il bacio che la risveglia; la festa finale coi preparativi per le nozze dei giovanissimi innamorati e raggianti. Questo il plot che si dispiega nei Tre atti e un Prologo del balletto, seguendo lo schema narrativo dell’arcinota fiaba di Perrault, nella quale occhieggia di lontano l’insospettabile antecedente che la ispira, la fiaba barocca del Pentamerone di Giambattista Basile “Sole, Luna e Talia” (col suo archetipo, il trecentesco Roman di Perceforest): narrazione cruda e inquietante, destinata ad un pubblico aristocratico e adulto, dove il bacio del principe è in realtà uno stupro, il risveglio è dato dai due figli (Sole e Luna) che ne sono il frutto, e il seguito ha caratteri da storie dell’orrore. Contenuto fortemente addomesticato dal Perrault de “I racconti di Mamma Oca”, il cui pubblico alto-borghese apprezzava veder trionfare i propri valori, specie quelli legati a modestia e remissività della figura femminile. Leggono ancora, i fanciulli di oggi nativi-digitalizzati e tele-tablet-narcotizzati, le bellissime fiabe feroci e catartiche, che popolarono il nostro immaginario infantile di orchi terribili, fate improbabili, perfide matrigne, barbablù sterminatori di mogli, lupi cattivi, streghe mangiatrici di bambini? Improbabile. Orchi, streghe e barbablù non li cercano nei libri di fiabe, li trovano ogni giorno, reali e infinitamente replicati su qualsiasi schermo. È il lieto fine, che manca.
Sara
Di Giuseppe
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