Sotto
il lugubre affresco di Sironi (1935) "L'Italia
tra le Arti e le Scienze"
nell'Aula Magna dell’Università "La Sapienza" di Roma,
inno all' "Ascesa
morale e sociale della patria" (???
allora come ora), si è compiuto il miracolo di una resurrezione:
quella di un'opera per musica come, ahimè, non è più dato di
ascoltare. Tale
Domenico Fischietti, napoletano verace del 1725, musicò svariati
lavori di Goldoni durante il proprio soggiorno veneziano, e tra
questi " La fiera di Sinigaglia ": risorta appunto venerdì
sera, in una appropriatissima cornice accademica. E' giusto parlare
di resurrezione: perchè tal genere di cose - che oggi fanno
sorridere noi smaliziati e presuntuosi - ai tempi in cui Napoli
vantava ben quattro conservatori, che toglievano "da 'n copp'e
vicule" i trovatelli educandoli alla musica (!), in Italia ed in
Europa si divertivano da matti per le storie semplici, per gli
intrighi un po’ infantili, per gli scontati lieto fine narrati da
geni assoluti della musica e dei teatri... Com'erano ingenui, diremmo
ora! Venerdì sera abbiamo riscoperto dunque il piacere del sorriso
bonario e sereno che solo Goldoni sapeva creare ed il piacere di un
contrappunto vivo, corposo, di mozartiana entità; non è casuale,
forse, che l’aria “Pochi san
lo stato mio” in cui Orazio
millanta i propri averi, mi abbia evocato “il catalogo” del Don
Giovanni (anche se il D.G. è successivo: ma Mozart, se questo è il
caso, era famoso per “richiamarsi” ad arie già esistenti).
Tornano alla mente le belle commedie di Goldoni con Cesco Baseggio,
nella tivù in bianco e nero degli anni '60, in cui si respirava
l'aria domestica di vicende forse intricate ma mai estremizzate,
l'elegante ironia che dipingeva caratteri e persone appartenenti a un
borioso passato di aristocrazia decadente e/o la crudezza di borghesi
mercanti, rampanti e alquanto cialtroni. Riproporre
questa "goldonità" affiancata sostenuta e sottolineata
dalla
musica di Fischietti, con la
"fluidità
discorsiva dei recitativi e i frequenti riferimenti alla musica
popolare, oltre agli apporti di una originale concezione degli
effetti teatrali"*,
ha
permesso di creare un'atmosfera da opera buffa old
style
di cui si è quasi persa memoria. Oggi
godiamo, è vero, di lavori come "Le nozze di figaro",
“L’Italiana in Algeri", "Il Barbiere di Siviglia",
"L’elisir d'amore", forme più evolute e complete (forse
massime) del genere, al più ci spingiamo fino a "La Serva
Padrona" di Pergolesi o a qualcosa di Galuppi e Cimarosa: ma è
un peccato che della beltà delle opere di scuola napoletana e
veneziana dei cosiddetti "minori" come Fischietti, ci si
sia quasi dimenticati. Eppure
Fischietti miscela sapientemente la cantabilità partenopea del genio
di Pergolesi e Paisiello con le innovazioni di matrice veneziana,
conferendo all'orchestra un ruolo ben più rilevante del semplice
accompagnamento dell'azione scenica; questa a sua volta è recitata
con una scrittura vocale armoniosa sia nel “tutti” iniziale e nel
concertato di chiusura - pur quasi solenni ambedue - che nelle
singole arie (già cavatine ?) ottimamente interpretate dalle voci
degli allievi del Conservatorio di Santa Cecilia. A loro va il merito
di aver reso nuovamente disponibili le atmosfere che, ai tempi del
Fischietti, sapevano evocare virtuosi come il Severino o la
Buonsollazzi (di particolare bellezza e qualità interpretativa
quella di Lesbina nel “I
mestieri van pur male”).
L’orchestra Musa (acronimo di MusicaSapienza), dal canto suo
mantiene sapientemente il ruolo contenuto ma mai secondario della
parte strumentale: essa interpreta al meglio il ruolo assegnatole
dall’autore e sottolinea, di questi, le doti di fine tessitore di
contrappunti con un prezioso duetto di flauti ed altre brevi
preziosità nel trattamento degli archi. Infine, ma non certo per
importanza, ci sono i “ragazzi” del Theatron
(Teatro Antico Sapienza): nel dar vita ai personaggi goldoniani,
rifacendosi alla grande tradizione di Baseggio, hanno reso palpabile
una situazione scenica che, senza la loro accurata gestione dei ritmi
linguistici, sarebbe facilmente apparsa statica e noiosa. La forma di
concerto e ridotta del lavoro, come anche il linguaggio stesso (alla
fin fine sono passati tre secoli…) potevano essere ostacoli di non
poco conto, eppure hanno saputo evitare la sopraffazione che la
narrazione avrebbe potuto facilmente esercitare sulle parti in
musica: veramente un bell’equilibrio… Unico neo, il pubblico: se
è vero, come credo, che un concerto, opera, balletto, film,
costituiscano un’emozione che non può essere interrotta (come
disse Veltroni a proposito delle interruzioni pubblicitarie) perché
non porre un freno alla foia cieca dell’.applauso che sempre più
spesso, e il più delle volte a sproposito, caratterizza certi
eventi? E’ triste che la superficialità dilagante dell’ oggi
impedisca di percepire che l’unitarietà del contesto, creando
atmosfera, immedesimazione ed emozione appunto, non deve essere
assolutamente interrotta da quello che è pur sempre un rumore:
l’applauso! Ma stendiamo un velo sugli affetti da “clap-syndrome”,
per rendere un profondo grazie a quanti hanno lavorato a questa
resurrezione: perché si diventa migliori ogniqualvolta si impara
qualcosa, e alla luce di questo suona non retorica anche la scritta
che campeggia sul lugubre Sironi:
“Doctrinae
studium vitam producit et auget immortalis eris si sapias iuvenis”
(Gli
studi e l’istruzione prolungano e accrescono la vita. Se hai il
sapere, o giovane, sarai immortale).
*(Dizionario
Biografico degli Italiani Raoul Meloncelli per Treccani,it)
Francesco Di Giuseppe
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