L’effetto
straniante del filtro a infrarossi con cui Richard Mosse fotografa
una zona di guerra in Congo ingoia quasi per intero una delle ultime
sale della superba mostra dedicata a 100
anni di fotogiornalismo di guerra.
La sua “Zona del
divertimento perduto”
- bambini in primo piano, sullo sfondo una tendopoli di sfollati, in
mezzo un campo che il filtro rende di un rosso accecante - testimonia
la ricerca di nuove modalità espressive, sfida della fotografia
negli anni Duemila all’assuefazione visiva dell’uomo
contemporaneo “fagocitante divoratore d’immagini”.
In questo e in altri scatti di guerre contemporanee ospitati nell’ultima sezione della mostra vediamo la fotografia farsi, da documento, oggetto d’arte: non sempre testimonianza di realtà fisicamente vicine e palpitanti, acquista significati ora surreali ora puramente estetici, e l’esperienza dell’azione bellica, non necessariamente vissuta, può essere anche solo “vista”. Emblematiche le immagini di Barack Obama e del suo staff che il fotografo della Casa Bianca, Pete Souza, ritrae mentre seguono su uno schermo il blitz contro Bin Laden; o quelle dei 51 avamposti aerei statunitensi sparsi nel mondo, le cui foto aeree Mishka Henner può ricavare senza sorvolarli fisicamente ma seduto alla scrivania davanti al suo computer; o le torri d’avvistamento israeliane del palestinese Taysir Batnji, simili “ad opere d’arte concettuale” nel loro isolamento dal contesto bellico. Nell’immagine fotografica degli anni Duemila, la rinuncia frequente alla ”vicinanza spaziale e temporale dell’azione”, la mescolanza di esperienza vista ed esperienza vissuta, o perfino di documento e finzione, operano una destrutturazione del linguaggio fotografico tradizionale in funzione di contrasto alla bulimia visiva del presente, di reazione alle “dinamiche della globalità contemporanea”. E fanno apparire enorme la distanza con il fotogiornalismo di 100 anni prima, quello della Grande Guerra, primo conflitto narrato anche dalle immagini e non solo dalla voce e dalla scrittura. Inizia da questa lontananza il percorso in un secolo di fotografia di guerra nelle ovattate numerose sale della mostra dove visitatori assorti studiano il volto, il gesto, l’istante immobilizzato che si fa storia, e quella lontanissima documentazione fotografica in bianco e nero è, di tutte, la più carica di suggestione. Dalle foto aeree usate per la prima volta nella Grande Guerra, a quelle scattate dai soldati stessi con gli apparecchietti Kodak per i loro saluti dal fronte; dagli scatti della Guerra Civile spagnola con le sue icone (il miliziano colpito a morte di Robert Capa, la soldatessa repubblicana di Gerda Taro), alle testimonianze della Seconda Guerra, a quelle della Resistenza italiana in maggioranza ricostruite a posteriori (con qualche eccezione, come il partigiano che affidò i pochi suoi scatti a Robert Capa, i partigiani non avevano con sé apparecchi fotografici che in caso di cattura avrebbero compromesso i compagni). E poi la guerra d’Algeria, il Vietnam, il Congo orientale con la sua guerra civile da oltre cinque milioni di morti… La fotografia di guerra diventa professione, si fa strumento privilegiato che forma e orienta il pensiero collettivo. Ma essa dispiega anche la sua natura ambigua: l’”orribile perfezione del fungo atomico” nelle immagini dei test nucleari nel deserto del Nevada e nell’atollo di Bikini tra ’46 e ’52 testimonia il potere manipolatorio che la fotografia è in grado di esercitare. Quelle foto dalla indubbia attrattiva estetica, furono le uniche autorizzate a circolare, nessuna delle foto scattate in Giappone dopo il 6 e il 9 agosto 1945 fu resa pubblica, e immediatamente ritirate quelle pubblicate su Life. Se ne riparlerà solo nel ’52, e finalmente nella fascinosa plasticità del fungo atomico si percepirà l’orrore della forza sterminatrice, e nella coscienza collettiva degli americani il terrore della distruzione globale comincerà ad oscurare le solide certezze della retorica patriottica. “Ho scoperto come si può imbrogliare la gente con le foto, imbrogliarla davvero” scriveva Helmut Herzfeld, in arte John Heartfield.
In questo e in altri scatti di guerre contemporanee ospitati nell’ultima sezione della mostra vediamo la fotografia farsi, da documento, oggetto d’arte: non sempre testimonianza di realtà fisicamente vicine e palpitanti, acquista significati ora surreali ora puramente estetici, e l’esperienza dell’azione bellica, non necessariamente vissuta, può essere anche solo “vista”. Emblematiche le immagini di Barack Obama e del suo staff che il fotografo della Casa Bianca, Pete Souza, ritrae mentre seguono su uno schermo il blitz contro Bin Laden; o quelle dei 51 avamposti aerei statunitensi sparsi nel mondo, le cui foto aeree Mishka Henner può ricavare senza sorvolarli fisicamente ma seduto alla scrivania davanti al suo computer; o le torri d’avvistamento israeliane del palestinese Taysir Batnji, simili “ad opere d’arte concettuale” nel loro isolamento dal contesto bellico. Nell’immagine fotografica degli anni Duemila, la rinuncia frequente alla ”vicinanza spaziale e temporale dell’azione”, la mescolanza di esperienza vista ed esperienza vissuta, o perfino di documento e finzione, operano una destrutturazione del linguaggio fotografico tradizionale in funzione di contrasto alla bulimia visiva del presente, di reazione alle “dinamiche della globalità contemporanea”. E fanno apparire enorme la distanza con il fotogiornalismo di 100 anni prima, quello della Grande Guerra, primo conflitto narrato anche dalle immagini e non solo dalla voce e dalla scrittura. Inizia da questa lontananza il percorso in un secolo di fotografia di guerra nelle ovattate numerose sale della mostra dove visitatori assorti studiano il volto, il gesto, l’istante immobilizzato che si fa storia, e quella lontanissima documentazione fotografica in bianco e nero è, di tutte, la più carica di suggestione. Dalle foto aeree usate per la prima volta nella Grande Guerra, a quelle scattate dai soldati stessi con gli apparecchietti Kodak per i loro saluti dal fronte; dagli scatti della Guerra Civile spagnola con le sue icone (il miliziano colpito a morte di Robert Capa, la soldatessa repubblicana di Gerda Taro), alle testimonianze della Seconda Guerra, a quelle della Resistenza italiana in maggioranza ricostruite a posteriori (con qualche eccezione, come il partigiano che affidò i pochi suoi scatti a Robert Capa, i partigiani non avevano con sé apparecchi fotografici che in caso di cattura avrebbero compromesso i compagni). E poi la guerra d’Algeria, il Vietnam, il Congo orientale con la sua guerra civile da oltre cinque milioni di morti… La fotografia di guerra diventa professione, si fa strumento privilegiato che forma e orienta il pensiero collettivo. Ma essa dispiega anche la sua natura ambigua: l’”orribile perfezione del fungo atomico” nelle immagini dei test nucleari nel deserto del Nevada e nell’atollo di Bikini tra ’46 e ’52 testimonia il potere manipolatorio che la fotografia è in grado di esercitare. Quelle foto dalla indubbia attrattiva estetica, furono le uniche autorizzate a circolare, nessuna delle foto scattate in Giappone dopo il 6 e il 9 agosto 1945 fu resa pubblica, e immediatamente ritirate quelle pubblicate su Life. Se ne riparlerà solo nel ’52, e finalmente nella fascinosa plasticità del fungo atomico si percepirà l’orrore della forza sterminatrice, e nella coscienza collettiva degli americani il terrore della distruzione globale comincerà ad oscurare le solide certezze della retorica patriottica. “Ho scoperto come si può imbrogliare la gente con le foto, imbrogliarla davvero” scriveva Helmut Herzfeld, in arte John Heartfield.
E
tuttavia negli stessi anni il fotogiornalismo, soprattutto europeo,
svolge un grande compito di documentazione della tragedia immane
delle guerre e delle ferite impresse sulla carne viva delle città e
degli inermi civili: August Sander, che negli anni Venti aveva
raffigurato le architetture di Colonia, torna a fotografarne le
macerie nel ’40; Henry Cartier-Bresson documenta a Dessau i drammi
dei campi profughi dove le vite dei vinti si mescolano a quelle dei
vincitori; Emmy Andriesse, ex fotografa di moda, testimonia
“L’inverno della fame” vissuto dalla popolazione dopo il ’45
nella Amsterdam liberata; Ernst Haas fotografa l’arrivo a Vienna
dei profughi dai campi di prigionia in Russia, le donne in attesa con
la foto del proprio caro, la delusione dei mancati arrivi. La
fotografia si fa strumento di denuncia politica nelle foto dal
Vietnam del britannico Jones Griffiths che di quel conflitto
sottolinea la devastante brutale inutilità, o è al contrario
strumento del potere al servizio del dominio coloniale: nelle foto
scattate da Marc Garenger ai volti di donne algerine spogliati del
loro velo, quindi nudi di fronte al dominatore, vi è tutta
l’umiliante prevaricazione del potere sui vinti e gli inermi. Più
tardi ci saranno la Beirut devastata delle foto di Gabriele Basilico,
la guerra serbo-bosniaca, la cruda violenza della rivolta ucraina,
fino al fotogiornalismo che diventa strumento d’inchiesta con la
nuova rotta investigativa nella rappresentazione della guerra. Con la
catalogazione fotografica degli oggetti personali rinvenuti nelle
fosse comuni in Serbia, l'immagine si mette al servizio della ricerca
- tuttora in corso - per restituire identità alle vittime: prova
schiacciante della vicenda storica per il Tribunale penale
internazionale, la fotografia si fa strumento della collettività e
offre a questa la memoria ritrovata della sua storia. Si esce da
questa mostra affascinati ed emozionati ma non “contenti”: le
fotografie “ci
guardano anche se non ci vedono”,
e 100 anni di fotografia ci guardano impietosi narrandoci la guerra
come sinistro fil-rouge tra storia e presente. Ci dicono senza filtri
che è l’intero nostro pianeta, atomo
opaco del male,
la nostra vera tragica“zona
del divertimento perduto”.
Foto
e virgolettati dal Catalogo della Mostra Guadagnini-Speri, ed.
Marsilio
Sara
Di Giuseppe
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